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Bruno Muheim
Leggi i suoi articoliAlla metà di marzo Sotheby’s ha diramato un comunicato stampa con la notizia della nomina di Tad Smith (già presidente e ceo della Madison Square Garden Company, una società attiva nel campo sportivo e dell’intrattenimento) a chief executive officer di Sotheby’s, a partire dal 31 marzo. Smith, 49 anni, entrerà anche nel Board of directors di Sotheby’s. Contestualmente la casa d’aste ha annunciato che il Board ha scelto Domenico De Sole, già direttore indipendente di Sotheby’s, come presidente della compagnia.
Gli ultimi cambi al vertice di Sotheby’s illustrano perfettamente la differenza sempre più marcata nel modo in cui affrontano il mercato dell’arte da una parte i mercanti, dall’altra le case d’asta anglosassoni.
Un mercante d’arte molto spesso è un figlio d’arte, da sempre fa questo mestiere e raramente avrebbe voglia di farne un altro. I più spietati e innovativi come Gagosian e Ropac sanno benissimo che il fulcro del loro lavoro comprende l’attività in galleria e le diverse fiere. Il business si fa in sede: occorre vendere opere d’arte e basta. Certo, vengono usate tutte le forme possibili di approccio della clientela, ma in una maniera rigorosamente classica.
Oggi sembra che le case d’asta non vogliano più fare aste e ancora meno vendere opere d’arte. Questo disincanto nasce già negli anni Ottanta. Per un nutrito gruppo di investitori tradizionalisti, comprare una casa d’aste era come acquistare un blasone: si cenava da una regina in esilio, per andare poi a caccia da un duca inglese, per finire sullo yacht di un’antica e ricchissima famiglia di Boston. Ma questo gruppo di finanzieri (tra i più famosi Alfred Taubman, François Pinault e Bernard Arnault) è un po’ come se avessero dimenticato che le vendite all’asta vivono su commissioni difficilmente aumentabili; provenendo tutti da aziende ad altissimo margine di profitto, si sono trovati con il loro capitale intrappolato in compagnie senza grandi opportunità di crescita.
Sotheby’s e Christie’s sono in vendita da anni. Riduzione di personale e spending review si succedono con la regolarità di un metronomo, ma questo non basta agli azionisti: questi vogliono soldi. Siccome però nessuno di loro viene dal mondo dell’arte, sono tutti sicuri che eBay, network e vendite private siano la loro salvezza.
La nomina come presidente di Sotheby’s di Domenico De Sole, l’uomo del rilancio del marchio Gucci, e come chief executive officer di Tad Smith, già amministratore delegato della Madison Square Garden Company (un pot pourri tra squadre di baseball, squadre di hockey e le famose Rockettes) e ancor prima attivo nell’ambito della televisione via cavo, sono un chiaro messaggio. Non si sa come i più importanti esperti di Sotheby’s prenderanno questo eccesso di sport e di allegria e soprattutto il fatto che entrambi i neonominati prendono il posto di Bill Ruprecht, da più di trent’anni nell’organico della casa d’aste. Ruprecht, entrato come esperto di tappeti e salito fino alla carica di presidente, era odiato dalla parte più aggressiva del consiglio di amministrazione, facente capo all’azionista di riferimento Daniel Loeb, l’uomo per il quale tutto si deve risolvere in denaro e margini di profitto. In questa situazione alcuni esprimono l’obiezione che ai vertici di Sotheby’s nessuno provenga dal mondo dell’arte. Certo, non c’è bisogno d’essere ingegnere per dirigere l’Eni o la Fiat, ma sicuramente aiuta, soprattutto perché la carenza di validi esperti in tanti reparti delle grandi case d’asta si fa ora nettamente sentire.
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