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Sotheby’s espone Agnetti in Palazzo Serbelloni

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Jenny Dogliani

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«Quando mi vidi non c’ero». Con queste poche parole uno degli esponenti più innovativi dell’Arte concettuale raffigura se stesso in «Autoritratto» del 1970. È Vincenzo Agnetti (1926-81), nato a Milano, diplomato all’Accademia di Brera, allievo di Giorgio Strehler alla Scuola del Piccolo Teatro.
A lui Sotheby’s dedica in Palazzo Serbelloni dall’1 al 5 febbraio una mostra curata da Bruno Corà, realizzata in collaborazione con l’Archivio Agnetti di Milano.

Amico di Piero Manzoni ed Enrico Castellani con i quali partecipò alla vicenda della rivista e galleria Azimuth, Agnetti esordì giovanissimo cimentandosi nella pittura informale e nella poesia, una produzione di cui poi cancellò ogni traccia, azione che fu la sua prima opera d’arte: «Quello che ho fatto l’ho dimenticato a memoria: è questo il primo documento autentico», dichiarò.

Realizzate nel 1968-78, le opere esposte sono tele, fotografie, interventi audio e installazioni in cui la relatività del linguaggio e del suo significato emerge insieme all’ambiguo rapporto tra oggetto, concetto e rappresentazione. In «Macchina drogata» (1968), l’artista sostituisce dieci lettere alle cifre di un calcolatore. Azionato dal pubblico, esso genera poesie o casuali sequenze di lettere prive di senso che in alcune tele, come «Oltre il linguaggio - Semiosi» (1969), diventano incisive composizioni grafiche. Chiude il percorso «Riserva di caccia» (1978), tre fotografie in cui Agnetti affronta temi di critica politica e sociale nei difficili anni di piombo.

Jenny Dogliani, 25 gennaio 2016 | © Riproduzione riservata

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