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Bruno Muheim
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Caccia alle streghe ai tropici: le reazioni alla pubblicazione dei Panama Papers
La pubblicazione dei Panama Papers è stato per tanti un momento di prova importante della possibilità di cambiare un mondo corrotto in uno migliore. È certo moralmente impossibile accettare l’esistenza del sistema dei paradisi fiscali e dell’evasione fiscale, le due più grandi piaghe del nostro sistema economico, ma certi commenti successivi alla pubblicazione su diversi giornali europei non fanno parte della categoria del giornalismo informativo: appaiono piuttosto una vera e propria caccia alle streghe.
«Le Monde» in particolare ha coperto in modo più specifico alcuni aspetti del mercato dell’arte, prendendo così di mira principalmente il mercante David Nahmad. È vero che la famiglia Nahmad non corrisponde all’immagine dei galleristi intellettuali e squattrinati, ma è piuttosto una macchina da guerra per fare soldi, e per questo certamente pronta, per alcuni, a fare da paravento a un mondo oscuro e moralmente riprovevole. «Le Monde» ci va giù duro nel titolo di un articolo, parlando dei «tour de passe-passe» (i colpi di mano, Ndr) della famiglia che nomina il clan…. e li accusa di detenere un quadro acquistato illegalmente in quanto bene frutto di spoliazione. Un anatema ripreso da tutta la stampa.
Sfortunatamente la realtà è diversa e ben più prosaica. I Nahmad sono mercanti e si servono per questo di strutture ad hoc, tra cui varie strutture inshore e offshore riconosciute della legge. Sono dunque dei mostri che non pagano le tasse? Peccato che se avessero comprato questi quadri come privati cittadini non avrebbero pagato alcuna tassa, dal momento che gli oggetti d’arte sono quasi ovunque non tassabili... In più, l’utilizzo di società offshore è assolutamente legale a patto che sia dichiarato (ne parleremo).
I tanto denunciati «tour de passe-passe» sono serviti per nascondere il fatto che hanno acquisito un quadro sottratto illecitamente e rifiutano di renderlo. Secondo errore grossolano di «Le Monde», per fortuna non ripreso dalla stampa. Il celebre ritratto di Modigliani in questione sarebbe stato sottratto al mercante Oscar Stettiner durante la seconda guerra mondiale, ma il quadro è stato comprato da un gallerista americano, poi rivenduto da Christie’s e solo allora comprato dai Nahmad.
Dunque se qualcuno ha fatto male il suo lavoro sarebbe piuttosto Christie’s, che non aveva verificato la provenienza dell’opera (ma è anche vero che nel 1996, anno della vendita, le case d’asta erano ancora poco allarmate su questi aspetti).
Dire che il clan Nahmad usufruisce di società offshore per nascondere opere d’arte oggetto di spoliazione è dunque indecente. Un altro caso, ripreso anche da «Il Giornale dell’Arte», è quello della famiglia Goulandris. Personalmente non ho mai conosciuto la famiglia Nahmad ma ho conosciuto bene i Goulandris e altre famiglie d’armatori greci tanto da capirne i meccanismi. Anche questa volta sono menzionati nei Panama Papers, che ne mettono in evidenza lo scopo di nascondere il loro patrimonio al fisco. Peccato che quasi tutti loro siano residenti nel Regno Unito o in Svizzera: in entrambi i casi le opere d’arte non sono tassabili. In più hanno acquisito queste opere negli anni ’50 e ’60, epoca in cui un Gauguin o un Van Gogh si compravano per meno di un milione di dollari (e non per 300 come adesso).
Infine, a causa delle proprie vite private oltremodo agitate, hanno sempre gestito i propri beni tramite trust per evitare interferenze da parte di mogli, amanti e figli vari (già Zeus faceva cosi con Hera, Atena e consorti...). La signora Goulandris, oltre a essere stata una importante mecenate, non ha mai aggirato il fisco di nessun Paese occultando le sue opere d’arte in società offshore per il semplice fatto che queste erano già state comprate «offshore» rispetto al suo Paese di residenza.
A questo punto arriviamo al passaggio cruciale di questo articolo. Il mercato dell’arte è decisamente un’area importante per il riciclaggio di denaro sporco e di opere d’arte trafugate o di provenienza illegale. Un male tragico che rovina totalmente l’immagine di questo settore.
Sfortunatamente, però, non ce n’è traccia nei Panama Papers: gli addetti a queste pratiche sono troppo abili e usano scatole cinesi che rendono quasi impossibile l’identificazione del proprietario effettivo. I giornalisti del pool dei Panama Papers sono risaliti a due o tre società paravento, ma non sono riusciti ad andare oltre. Il nodo mafioso è ben altro.
Non si può dimenticare anche che i regimi diversi di tassazione sul valore (l’Iva in Italia) e la globalizzazione del mercato dell’arte obbligano chi opera sui mercati a tenere i propri quadri offshore: sarà il cliente a decidere in funzione del suo Paese di residenza l’ubicazione definitiva del suo acquisto e pagherà le tasse adeguatamente. Non c’è in questa pratica alcun desiderio esplicito di truffare l’amministrazione. Appare evidente che tocca al cliente finale dichiarare ufficialmente il suo acquisto, ma il signor Nahmad della situazione può solo fare uscire un quadro da una società offshore con un documento ufficiale.
Insistiamo sul bisogno assoluto d’una trasparenza totale delle transazioni commerciali nel mondo, ma prima si deve legiferare in merito. È vero che un mercante un po’ troppo vistoso e una ereditiera greca fanno gola a una stampa vorace di scoop, ma non ci si può permettere conclusioni scandalistiche in funzione di un potenziale cambiamento futuro delle norme e ignorando il contesto attuale: lo impone la correttezza giornalistica.
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