Image

Verifica le date inserite: la data di inizio deve precedere quella di fine

Image

La critica d’arte americana Rosalind Krauss

Image

La critica d’arte americana Rosalind Krauss

Rosalind Krauss si racconta a «Il Giornale dell’Arte»

In occasione della consegna del prestigioso Premio Balzan abbiamo intervistato la celeberrima studiosa statunitense

Silvia Conta e Monica Trigona

Leggi i suoi articoli

«A Rosalind E. Krauss, per Storia dell’arte contemporanea, per gli eccezionali risultati accademici e per il suo ruolo fondamentale nell’affermazione dell’arte contemporanea come campo di ricerca». Questa è la motivazione con cui è stato conferito il Premio Balzan 2025 il 15 novembre alla celeberrima studiosa statunitense. La Fondazione Internazionale Premio Balzan è stata creata nel 1957, ha sede a Zurigo e a Milano, e amministra il patrimonio lasciato da Eugenio Balzan, con lo scopo di «sostenere la cultura, le scienze e le più meritevoli iniziative umanitarie, di pace e fratellanza tra i popoli. Le candidature provengono da istituzioni accademiche e culturali di tutto il mondo appositamente interpellate. I vincitori dei Premi Balzan destinano la metà del Premio a progetti di ricerca, svolti da giovani scienziati e umanisti».

L’edizione di quest’anno assegna per la prima volta un riconoscimento nel campo dell’arte contemporanea. Accanto a Krauss sono stati premiati Carl H. June per Terapia genica o con cellule geneticamente modificate, Josiah Ober per Scienze dell’antichità: democrazia ateniese rivisitata e Christophe Salomon per Atomi e misura ultraprecisa del tempo. La cerimonia di consegna dei Premi Balzan si svolge ad anni alterni a Roma, alla presenza del Presidente della Repubblica italiana, e a Berna, alla presenza di un rappresentante del Consiglio Federale o del Consiglio Nazionale svizzero. 

Nei giorni dell’assegnazione del Premio, abbiamo incontrato Rosalind Krauss nella capitale elvetica, signora affabile e ironica, che ci ha raccontato il viaggio attraverso cui ha ridefinito la critica d’arte mettendone in discussione gli schemi tradizionali.

Che cosa significa per lei ricevere un premio così prestigioso, assegnato a persone che si sono distinte per risultati eccezionali nel campo delle scienze e delle discipline umanistiche?
Come scrittrice mi siedo nel mio studio e mi concentro sul mio computer. Sono come un monaco. Avere questa risonanza, avere la sensazione che qualcuno abbia ascoltato il mio lavoro, è molto toccante per me. È un po’ come la prova che le persone leggono il mio lavoro, che per me è davvero silenzioso.

Il suo lavoro ha avuto una risonanza mondiale...
Mi rende estremamente felice, devo dire. E altrettanto felice mi rende la sensazione che nel mio campo, che è l’arte contemporanea, la critica della storia dell’arte contemporanea stessa sia stata inventata attraverso il mio lavoro. Nel Premio Balzan non esisteva un riconoscimento standard nell’ambito dell’arte, ma all’improvviso qualcuno ha detto che io avrei dovuto vincere un premio e in un certo senso hanno inventato un campo di ricerca; quindi, è come inventare uno stile d’arte. Non è meraviglioso?

Lo è, il suo lavoro è tra i più citati nel campo.
Grazie, ma in generale non ho la sensazione che qualcuno ne sappia qualcosa. Faccio solo un esempio: a Londra la casa editrice Thames & Hudson tiene annualmente una conferenza in onore del suo fondatore, Thomas Neurath. Un anno mi è stato chiesto di tenerla. Di solito inviano i biglietti a tutti, ma poi il risultato è che l’oratore si alza per tenere la conferenza e l’aula rimane vuota perché non si presenta nessuno. L’anno in cui l’ho tenuta io, non sono stati inviati biglietti, ma sono stati distribuiti all’ingresso, direttamente alle persone accorse. Il giorno della conferenza hanno mandato una macchina a prendermi e quando sono arrivata all’ingresso c’era una fila che andava dalla parte moderna della National Gallery fino alla galleria delle sculture. Era lunga circa un isolato e ho pensato: ecco che cosa significa essere una rock star [ride, Ndr]: per me è stato così sorprendente, mi sono sentita come Mick Jagger [ride, Ndr].

Lei ha contribuito a decostruire il mito dell’originalità. In un’epoca dominata dalla riproducibilità digitale e dall’Intelligenza Artificiale, che cosa significa oggi essere «originali»?
Credo che essere originali significhi in realtà, forse ironicamente, ricordare il passato ed essere in grado di rendere visibile il passato del proprio medium. Trovare un nuovo modo per dire: «Sono un artista, sono uno scultore...». Ed è questo che significa essere un artista o uno scultore. Capire, quindi, come creare una rappresentazione del proprio lavoro che, ricordandolo e presentandolo, sarà ovviamente unico per te stesso, perché è il tuo ricordo. E naturalmente questa idea di originalità e di freschezza o di novità è qualcosa che risale al passato. Penso a Ezra Pound che diceva: «Rendilo nuovo». Storicamente ogni tipo di stile, lo stile moderno, era di per sé incentrato sull’idea di novità o freschezza. Quando Filippo Tommaso Marinetti, il maestro del Futurismo, scrisse il Manifesto del Futurismo, raccontò che con un gruppo di artisti, che divennero poi i futuristi, era seduto in un appartamento e che erano tutti agitati pensando all’Italia come a un museo. Si sentirono soffocare e decisero di uscire nella notte, salirono in macchina e corsero per la città. L’automobile ebbe un incidente e si capovolse. Marinetti scrive che finirono in una sorta di pozza d’acqua fangosa e in un certo senso quando si rialzò fu il suo battesimo da futurista. Credo che l’originalità abbia a che fare con questo senso di presa di coscienza.

Nel suo lavoro, la psicoanalisi, la semiotica e la filosofia si intrecciano con la critica d’arte. Pensa che la critica oggi possa ancora permettersi questo livello di complessità teorica?
Credo che debba farlo necessariamente. Se non lo fa, scade nell’intrattenimento. E deve avere un certo senso. Ho scritto un testo per l’occasione in cui spiego che il grande artista è colui che ha trovato un modo nuovo per rendere quell’intelligenza accessibile allo spettatore o a chi prende sul serio l’arte. Quindi questo significa davvero inventare un nuovo vocabolario per farlo.

Lei ha parlato dell’importanza dell’«inconscio ottico». Ora che siamo sommersi da immagini provenienti da ogni possibile fonte, quell’inconscio esiste ancora? Dove si nasconde?
Per me, l’inconscio ottico è una sorta di ascesa del corpo nell’opera d’arte, penso che uno dei grandi esempi sia la scultura di Richard Serra. Lui crea dei canali con questo acciaio molto pesante in cui lo spettatore è invitato a entrare. E quando ci si entra, alla fine si vede la luce del giorno. È come se il visitatore percorresse il sentiero attraverso i canali d’acciaio, che in un certo senso si inclinano, sembrano inclinarsi proprio verso il corpo. Qui si percepisce il proprio corpo, lo si sperimenta in modo nuovo mentre ci si muove attraverso quest’opera. E per me, l’inconscio, come per Freud, riguarda l’esperienza del corpo, poiché la coscienza è vissuta attraverso il corpo.

Intende dire che è importante rimanere in contatto con l’opera d’arte vera e propria? 
La mia idea di inconscio ottico era, prima di tutto, legata al termine che Benjamin usa per primo, «inconscio ottico», appunto. Era una sorta di ribellione contro ciò che era di moda all’epoca, ovvero la pittura a macchia, o quella che era considerata l’esperienza puramente visiva dell’opera d’arte, come in Jackson Pollock. Provavo una sorta di reazione contro quella che consideravo la teleologia, il tipo di percorso che l’arte deve percorrere. A quel tempo, ero molto entusiasta dell’opera di Georges Bataille, che si oppone a questa idea dell’ottico attraverso l’informe e così ho allestito una mostra a Parigi con il mio amico Yve-Alain Bois e l’abbiamo intitolata «L’Informe: mode d’emploi», che significa «senza forma», una guida per l’utente, e abbiamo esposto Claes Oldenburg, Jackson Pollock, Robert Smithson e Gordon Matta-Clark, credo sia stata una rivelazione per la Francia dell’epoca.

Secondo lei, c’è ancora spazio per gesti veramente radicali nel sistema dell’arte contemporanea, o il «radicalismo» stesso è stato ormai assimilato e neutralizzato dal mercato e dalle istituzioni culturali?
Per me Richard Serra era il più grande artista vivente, purtroppo oggi non c’è più. Per come la vedo io, l’artista più importante oggi è William Kentridge, che ritengo molto radicale. Si potrebbe pensare che la sua radicalità abbia a che fare con il fatto di essere sudafricano e, quindi, con la sua resistenza politica. Credo, tuttavia, che questo in parte sminuisca l’originalità e la radicalità del suo lavoro. Considero molto radicale anche il lavoro di Gabriel Orozco.

Che cosa significa per lei la radicalità in questo senso?
Radicalità significa pensare controcorrente rispetto all’idea che il medium sia finito e che l’arte non debba necessariamente significare o avere alcun intento: gli artisti radicali sono quelli convinti di dover dare un significato o, potremmo dire, quelli «condannati» a sentire di dover dare un significato. La mia opinione è questa.

Un’ultima domanda sulla sua storia personale. Come ha iniziato a interessarsi all’arte?
Da bambina disegnavo e dipingevo. I miei genitori credevano che avessi un grande talento come artista, il che, ovviamente, non era vero. Non ho talento come artista, ma ho una certa esperienza nel creare arte e penso che sia questo ad avermi dato il coraggio di scrivere d’arte. La mia spinta a scrivere d’arte ha a che fare, inoltre, con l’esperienza artistica che ho avuto con mio padre: lui lavorava per il Dipartimento di Giustizia a Washington. Ci incontravamo lì una volta al mese e andavamo insieme a pranzo alla Mellon Gallery (National Gallery of Art, Ndr) e passeggiavamo tra le gallerie. Mio padre era felicissimo quando era nella sezione della pittura olandese del XVII secolo, ammirava molto Rembrandt e Vermeer, quella per lui era arte. Quando arrivavamo alla sezione più moderna, che ospitava Braque e Picasso, diceva che non era arte. Io ero determinata, continuavo a cercare di convincerlo che valesse la pena che quelle opere fossero esposte nello stesso museo di Rembrandt e Vermeer. Poi ho pensato di non avere le parole per convincerlo e mi sono sentita molto impotente. Quindi uno degli elementi che mi ha portato alla storia dell’arte è stata l’idea di dover avere un linguaggio efficace per convincere qualcuno che è restio all’arte, dargli la sensazione che l’arte abbia davvero un significato e che intenda dare un significato.

Perché ritiene che l’arte sia importante per l’umanità?
Freud dice che quando gli esseri umani si sono alzati in piedi, quando non correvano più in giro a quattro zampe come gli animali, tastandosi e annusandosi a vicenda, questo ha significato che avessero preso distanza fisica l’uno dall’altro e il senso dell’olfatto si era trasformato in visivo. Potevano così mantenere la distanza l’uno dall’altro e continuare a comunicare tra loro perché potevano vedere: questa distanza era l’inizio del senso della bellezza. Questa distanza era necessaria per la bellezza, per l’idea di civiltà (e dei suoi malcontenti) e per l’affermarsi nella coscienza umana dell’idea di bellezza, che è l’idea di poter comunicare tra di noi. Penso sia molto importante.

Silvia Conta e Monica Trigona, 02 dicembre 2025 | © Riproduzione riservata

Rosalind Krauss si racconta a «Il Giornale dell’Arte» | Silvia Conta e Monica Trigona

Rosalind Krauss si racconta a «Il Giornale dell’Arte» | Silvia Conta e Monica Trigona