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Roba forte

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Redazione GDA

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In generale il fotografo giapponese fa molto fico, oggi. Se poi è giovane e donna, meglio ancora. Se poi è capace di pubblicare a raffica due libri intitolati uno Dildo e l’altro Bible, protagoniste le identità sessuali transgender di due dei suoi amanti, è un bingo assicurato. Momo Okabe, così si chiama la nostra autrice, è la freschissima vincitrice del prestigioso Foam Paul Huf Award 2015 (cfr. p. 49), ultimo riconoscimento di una serie cominciata nel 1999 grazie all’occhio acuto di Nobuyoshi Araki, uno che di fotografie urticanti se ne intende.
Non è, devo dire, che le sue cose facciano impazzire: sono una specie di diaristica ellittica con immagini suggestive dai colori acidi e visioni icastiche di corpi che svariano dal sessuale al chirurgico. Roba così.
Ma qui, come in molte altre cose dell’arte d’oggi, conta assai più quella definita dal termine passepartout di raccontabilità, che non l’esito linguistico delle realizzazioni. Intorno a questi lavori si possono fare mille narrazioni e mille discussioni, i media possono parlarne in rubriche diverse (da «arte» a «curiosità dal mondo», con piglio sociologico o trash, passando per le gradazioni infinite del politicamente corretto e del variamente e fintamente scandalizzato), il mercato esclusivo farne un oggetto di culto. Il tutto a prescindere, per certi versi.
Okabe accompagna il percorso con sapienza, regalando dichiarazioni tipo: «Mi sono resa conto che le mie esperienze sessuali sono come la paura, la disperazione e la rabbia nell’affrontare la morte causata dallo tsunami. Mi sembrava così simile alla violenta energia che scaturiva dal fondo del mio corpo».
Hai voglia a dire che, come per decenni ci hanno insegnato, il soggetto è solo un pretesto formale, essendo lo stesso progetto stilistico e l’approccio esecutivo il vero argomento, e il reale pregio, dell’opera, e che occorre uno sguardo educato, sgombro da preconcetti, capace di penetrare il nucleo profondo dell’immagine. Poi guardi queste cose e ti sorprendi a figurarti una commissione giudicatrice che si pone la seguente questione: meglio premiare uno che fa lavori perfetti sui quali non c’è molto da dire, o una che tira in ballo la sessualità cruda e le derive dell’identità di genere? E una riunione di redazione in cui uno annuncia: «Ahò, qua c’è una che ha fatto un libro che si chiama “Dildo” pieno di roba forte», e tutti a dire all’unisono che non si può non parlarne.
Per dire, Sugimoto (approfitto: la mostra di Modena va proprio vista) è un genio, ma dopo un paio di frasette colte e la solita chiosa che costa un botto di denaro non hai più niente da dire, e il caporedattore te lo boccia di sicuro: uno che fotografa orizzonti marini e cinematografi vuoti dove vuoi che vada?
Invece qui si possono cicciare un sacco di parole, soprattutto a sproposito, e ti senti pure uno che contribuisce al progresso culturale e sociale.
Magari se i commissari che hanno steso le motivazioni del premio avessero evitato, viste le tematiche elette dalla prescelta, di tirare in ballo l’«high caliber of the submissions», non avrebbero consentito a noi vecchi sporcaccioni di imbastirci sopra il solito pessimo doppio senso da osteria. Tant’è. La cultura engagée guarda ben oltre, e si fa un baffo di tali quisquilie.

Redazione GDA, 27 aprile 2015 | © Riproduzione riservata

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