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Redazione GDA
Leggi i suoi articoliL’enigma
La storia di questo capolavoro assoluto nel campo dell’arte è accompagnata da un mistero, da un enigma che pare impenetrabile. Ci si riferisce solo a una parte del quadro, quella di destra. La parte di sinistra è di chiara comprensione: si tratta della scena della flagellazione del Cristo. Da qui il titolo. La destra invece presenta, in primissimo piano, tre personaggi contemporanei all’artista, che non si sa chi siano. Le ipotesi e gli indovinelli sono innumerevoli, dal Settecento ad oggi. Il centro del mistero è qui.
Il giovane
L’attenzione si concentra massimamente sul personaggio centrale, che provoca qualche imbarazzo. La figura del giovane poggia la mano sull’anca avanzando naturalmente la gamba sinistra, a cui le pieghe della veste si adattano orizzontalmente sulla coscia flessa, compiendo un arco convesso. La veste a destra è invece stesa, pare senza traccia dell’arto destro. Il corpo sembra poggiare su tale gamba, che però non è sufficientemente distanziata e arretrata da permettere un giusto equilibrio, anche se lo spazio ci sarebbe. Forse Piero ha inteso far coincidere la sagoma del giovane con quella del Cristo. Ma il confronto fra le due figure sottolinea ulteriormente l’anomalia della prima, il cui baricentro sembra non garantire pienamente l’equilibrio. Il piano d’appoggio è basso e si ha l’impressione che i piedi non poggino bene su di esso, ma vi si adattino a fatica. Se si raddrizzasse la gamba sinistra, essa risulterebbe più lunga. Due gambe di diversa lunghezza fanno claudicanza. La conclusione è che il giovane è zoppo.
Lo storico dell’arte
Io non sono un critico, uno studioso d’arte, ma soltanto un pittore che legge, legittimamente, le forme, il disegno delle figure e la loro anatomia. L’ideologia viene dopo. Tuttavia ricorro a uno dei maggiori storici dell’arte, Roberto Longhi, profondo conoscitore di Piero, il quale sull’argomento specifico delle gambe del giovane pronuncia parole a ben vedere sconcertanti: «Queste due gambe candide e intere (?) si fondono come due diverse pietre miliari disposte a due diversi traguardi spaziali (?), senza articolazione(?)». È un testo che provoca molte perplessità, che dice e non dice. «Intere»: perché non dovrebbero esserlo? Staccate, incomplete? Interrotte come alludono «le due pietre miliari», quasi fossero due tronconi a sé stanti? «A due diversi traguardi (a destra e a sinistra) spaziali». Un’ovvietà se non si mettesse in dubbio il percorso degli arti. «Senza articolazione»? La sede dell’articolazione è ogni acetabolo. Se non che, all’altezza dell’acetabolo destro appare uno sbuffo della veste molto rigonfio rispetto agli altri, sotto la cintura, mai presente nelle vesti degli altri personaggi; vorrebbe forse nascondere gli effetti di una eventuale malformazione? Se è così, la veste gli è stata forse confezionata, cucita apposta in questo modo? Si ha quasi l’impressione che sotto al camicione ci sia il vuoto. Dalla parte destra ovviamente. Questa indagine, prevalentemente anatomica, è anche il tentativo di decodificare l’ambigua dichiarazione longhiana. Per renderla più appropriata e precisa lascio indagare sopra e sotto la veste il professor Loris Valdisserri, primario di Ortopedia infantile all’Università di Bologna, che gentilmente mi ha fornito un prezioso commento scientifico (vedi box sotto a sinistra).
Identikit
Secondo un documento dell’epoca, Storia di Mantova, un certo giovane «Bello, grande, bianco» «dopo pochi anni, dai sedici ai venti, contrasse una malattia che lo lasciò mostruosamente gobbo e inabile». Siamo a Mantova e c’è un padre angosciato del proprio figlio, biondo, giovanissimo, bellissimo, ma deforme. Questo padre è Carlo Gonzaga, fratello di Ludovico, signore della città, anch’egli profondamente addolorato. L’infelice giovane si chiama Vangelista. Nella figura dipinta la gobba non si potrebbe vedere, perché sarebbe posta dietro e il punto di vista è molto basso. Aggiungerei che il braccio dà l’impressione di cadere a penzoloni, ciondoloni, inerte e terminante in una mano molto grande e gonfia. Si potrebbe insinuare una forma di paresi? C’è un’altra piccolissima curiosità inspiegabile. Il braccio è accompagnato da una strisciolina dipinta, nel muretto alle spalle del presunto Vangelista, con immaginette geometriche, forse cubetti o rombini.
Cripticità o occultamento
Una domanda ora si impone: perché non ci si è mai accorti dell’anormalità del personaggio? Io avanzo l’ipotesi che Piero della Francesca abbia di proposito «nascosto» l’handicap del giovane. Non si è comportato come il roccioso ma cortigiano Andrea Mantegna, che nella stupenda Camera degli Sposi ha ritratto i componenti la famiglia Gonzaga in ottima salute e belli, quando invece tutti avevano ereditato gli effetti di una malattia del midollo spinale. La tara era stata tramandata dalla capostipite, Paola Malatesta, che era gobba. Il grande e onesto Borghigiano invece, fedele al vero, non bara e raffigura Vangelista «come è», ma con piccoli scarti, quelli che riteniamo di avere indicati, ce lo nasconde. Perché non vuole offrire lo stato commiserevole del giovane: per deferenza, per pietà, per amicizia.
La prova del nove?
Aggiungo una mia «prova del nove». Mi sono permesso di rappresentare Vangelista in modo tridimensionale, modellando la sua figura in una piccola statuetta di terracotta, abbastanza fedelmente, e svelando l’anormalità celata nel piatto frontale della pittura. Si osservi il profilo, e così potrà essere dimostrata questa anormalità: con le gambe mal poste e la gobba. Osservandola di profilo, la gamba destra sembra fuori posto, tanto da impedire l’equilibrio. Nel retro, la medesima gamba è molto inclinata verso il ginocchio sinistro, tanto da risultare quasi valgica. L’inclinazione potrebbe essere causata dalla scarsa pressione del femore che risulterebbe molto inclinato, fuori dall’acetabolo: chiara allusione alla lussazione dell’anca.
Il cardinale
Vangelista si trova al centro del cubo, come protagonista; il bellissimo volto diretto verso di noi guarda lontano, assorto e assente, e in mezzo a due compagni più vecchi che dialogano tra loro. A sinistra c’è un personaggio vestito all’orientale in maniera molto pittoresca. Annamaria Maetzke rileva analogie circa i vestimenti con alcuni astanti della lunetta relativa alla Leggenda della «Vera Croce», dove Eraclio riporta il sacro legno a Gerusalemme. Stessi copricapi rotondi su teste fasciate da bende bianche. Stessi calzari di pelle (da viaggio) con cucitura verticale. È Bessarione, come ha mostrato lo storico Carlo Ginzburg. È un cardinale prelato della Curia romana; un orientale venuto da tempo in Italia, nel centro del mondo, cioè a Firenze, per studiare la possibilità di riunire la Cristianità di Oriente e Occidente (concilio del 1438-39), accompagnando come amico e consigliere politico-religioso l’imperatore Giovanni VIII Paleologo (aggiungiamo che le debolezze, le incertezze della politica di costui nei confronti della minaccia islamica gli costano un ritratto come Pilato nel cubo della «Flagellazione»). Bessarione è un uomo molto tormentato (siamo nel 1453, anno della caduta di Costantinopoli a causa dell’invasione ottomana dell’impero bizantino) e ora impegnato a propagandare una crociata, auspice Pio II. «Lasciare Costantinopoli in mano a Maometto significava aprire il cammino all’Islam, che senza fatica, avrebbe risalito i Balcani e dopo aver occupato Vienna, sarebbe inevitabilmente disceso in Europa» (Edgarda Ferri). Per tali ragioni, e soprattutto grazie alle pressioni di Bessarione, si riunisce il convegno a Mantova (1459). Il cardinale amava distinguersi dal resto della Curia indossando invariabilmente, anziché la porpora, la veste nera del monaco basiliano con lunghe maniche, per ribadire la sua diversità e insieme il lutto per il suo secolo. Qui nel quadro è pronto al viaggio (per Mantova?): calzari di pelle, mantello. Circa la somiglianza, Vittore Branca sostiene che il suo volto s’identifica con quello del «San Girolamo» dipinto da Carpaccio. Ai piedi del santo giace una pergamena chiusa con il sigillo rosa di Bessarione, in cui si può riconoscere l’indulgenza concessa dal cardinale alla scuola dalmata (membro del Maggior Consiglio come Patrono della Repubblica di Venezia, egli aveva donato la sua inestimabile biblioteca alla Marciana). Inoltre abbiamo l’incisione di Paolo Giovio del tardo Cinquecento, dove il suo volto è desunto da un originale di Piero.
Il committente
Quello a destra, molto lussuosamente vestito, probabilmente un riccone, esplicita la sua condizione con il tipico gesto delle mani infilate sulla cintura, come a dire: «I quattrini ci sono!». L’amico molto distinto a sinistra sembra rispondergli rassicurato con un gesto della mano: «Oh! Bene! Siamo d’accordo!». I tre rappresentano la partecipazione del mondo cristiano alla grossa impresa del convegno mantovano tenuto nel 1459 e voluto da papa Pio II. Già nel 1976 Gourma Peterson, studiosa americana, sviluppando l’intuizione di Kenneth Clark aveva detto che la «Flagellazione» veicolava un messaggio di propaganda contro l’Islam. L’idea non è nuova: pochi anni prima, nel 1453, era avvenuta la funesta perdita di Costantinopoli, e nel concilio di Firenze che ne era seguito si tentò di progettare una crociata che poi non si fece. Tutto ciò è compreso nel cubo di sinistra con la flagellazione del Cristo, simbolo luttuoso di quell’evento. L’ipotesi della nuova crociata è però contrastata dal duca Federico, gonfaloniere militare della Chiesa. Probabilmente, per vincerne la riluttanza, la tavoletta della «Flagellazione» assume il significato di un messaggio propagandistico, di un manifesto: un dono al duca, forse concepito da Bessarione e commissionato da Bacci a Piero, come propone Silvia Ronchey. Il terzo uomo fa contrasto per la sua lussuosa «pellanda» (la più ricca veste maschile dell’epoca, suggerisce Longhi) di broccato azzurro molto ricamato con motivi di melograno, simbolo di rinascita. È un signore di mezza età, pelato. Una fascia rossa (emblema di comando per un incarico assunto nel lontano 1440 in quel di Costantinopoli, su volere di Eugenio IV) gli pende dalla spalla destra per ricomparire sulla caviglia sinistra. Lo conosciamo: lo abbiamo già visto. Piero, che gli è amico nonché cliente, lo ha ritratto varie volte, ora giovane, ora meno giovane. Nella tavola della «Madonna della Misericordia» appare inginocchiato; riappare ancora nell’«incontro con re Salomone»; e più tardi fa parte dei giudici che condannano re Cosroe, proprio in uno dei mirabili affreschi commissionati dai Bacci. Giovanni Bacci è lui. Ha un orecchio con l’elice non arrotondato, un po’ a punta. Con sicurezza lo ha indicato Carlo Ginzburg. È stato anche podestà di Gubbio. L’amico Bessarione lo ha pregato di commissionare al nostro pittore un’altra opera, dietro sua ideazione. Questi amici vogliono vincere la riluttanza dell’altro amico Federico da Moltefeltro per organizzare la nuova crociata: e la scritta «Convenerunt in unum», si sono adunati insieme, che appariva un tempo sulla tavola (riferibile, pare, al Cristo e ai suoi nemici) non potrebbe essere rovesciata paradossalmente, se riferita a Vangelista e compagni? Il Cristo flagellato è il tassello che integra la propria storia, quella narrata negli affreschi di Arezzo. È il filo che unisce tutte queste opere eccelse per una seconda Gerusalemme. E Gerusalemme balza subito all’occhio se osserviamo che Bacci è campito sulla parete di un muro con tettoia, che per via delle mensole metalliche somiglia allo stesso muro con mensole dell’affresco di Arezzo, dove assistiamo al miracolo del risorto che segnala poi la Vera Croce. Ciò è forse di buon augurio per la risurrezione del mondo cristiano in Oriente? E il campanile vicino non potrebbe segnalare l’evento tanto desiderato col suono delle campane? Comunque, queste somiglianze tra «Flagellazione» e «Ciclo d’Arezzo» costituiscono una perfetta saldatura della Storia Sacra del Cristo e della Croce.
Imago Christi
Concludendo, direi che possiamo rilevare una precisa simmetria tra le due parti o cubi, con le stesse finalità politico-religiose: un perfetto parallelismo tra le varie figure, con tre personaggi in ciascun cubo. Nell’uno: Pilato, Maometto, Cristo; nell’altro: Bessarione, Bacci, Vangelista. Nel primo, o cubo del passato, e siamo nel Pretorio in Oriente, si allude al Concilio di Firenze (Nicolò III). Nel cubo di destra, e siamo in Occidente, all’aperto, illuminato da sinistra, oggi 1459, cronaca e storia in fieri, papa Pio II proporrà (inutilmente) la stessa impresa militare, nel convegno che si deve tenere a Mantova, patria del Gonzaga (l’apertura della conferenza avverrà il 30 maggio). Ce n’è uno che lo rappresenta? Vangelista, che è sulla bocca di tutti. Potremmo supporre che detenesse una qualche carica nell’ambito della delegazione? Questo giovane verberato da un destino e da una natura crudeli si offre anche a simbolo dell’umanità sofferente quale vittima sacrificale. Mi chiedo se Piero abbia volutamente inteso simboleggiare la natura del Divino che traspare dalla similitudine con il Cristo. La bellissima testa aureolata da una bionda chioma campeggia su un verziere di ulivo fiorito che potrebbe richiamare gli orti santi della storia evangelica. I nudi piedi sono degni dei pellegrini, dei profeti, dei santi e dei povericristi. E ricordiamo la sua figura, in ciò importantissima, sagomata su quella del Cristo. E il camicione modestissimo per via del rosso, non è un altro segno significativo di regalità? Per non dire dell’angelica venustà, degli occhi azzurri e dei capelli biondi a guisa di aureola. Imitatio Christi? Imago Christi? È certo che la tavola di Piero doveva entusiasmare i contemporanei non solo per la sua qualità artistica, ma anche per il suo messaggio; e a maggior ragione il supposto destinatario, il fiero duca Federico. Il suo unico occhio doveva brillare, «commotus». Cinquant’anni dopo la morte di Piero, nessuno sapeva più chi fosse: lo si considerava solo un grande matematico e prospettico. Quei grandi eventi raffigurati nella «Flagellazione» furono dimenticati, e sul bellissimo giovane e compagni calò il silenzio per secoli. Se ogni elemento della pittura di Piero ha senso, che cosa vogliono dire? C’è un precedente o un equivalente di altre forme geometriche nell’affresco relativo alla «Annunciazione» di Arezzo. Infatti la Madonna è affiancata, sul muro dietro, da una decorazione a cubetti in prospettiva. Intelligentemente, Anna Maria Maetzke la interpreta in due modi. Una lettura semplice in superficie e un’altra in profondità. Nel primo caso la vergine è una semplice donna umile; nel secondo caso, simbolico, è la Mater Dei. Se nella nostra decorazione si trattasse di rombi, rischio un arzigogolo. Mi riferisco al significato in greco di movimento. Il braccio, se è paralizzato, si varrebbe forse dell’augurio esorcistico di guarigione? Sempre sul muretto in alto e in basso appaiono dei bassorilievi a forma di girali o girasoli, che secondo Marilyn Aronberg Lavin sarebbero simboli dell’impresa araldica dei Gonzaga. L’ottima Marilyn aveva già fatto il nome di Vangelista. Anche alcune delle ottime studiose del dipinto (Anna Maria Maetzke, Silvia Ronchey) convengono (en passant, di sguincio) su questa ipotesi.

Wolfango (Peretti Poggi) è nato il 28 aprile nel 1926 a Bologna, dove abita. «Disegno e dipingo da sempre», asserisce. Dopo gli studi classici, per seguire la tradizione familiare frequenta la facoltà di Medicina. Abbandonata l’Università, si dedica all’illustrazione di libri (la Divina Commedia, Pinocchio, le Odi di Parini), attività «mercantile, parartistica, per campare». E nel frattempo dipinge «nella più assoluta privatezza», sostenuto dalla moglie Chiara Pozzati (sorella di Concetto) e dall’apprezzamento di Francesco Arcangeli. Esce allo scoperto come pittore a sessant’anni, nel 1986, «stanato» da Eugenio Riccòmini (che lo paragona a Lucian Freud), con una mostra in una chiesa sconsacrata bolognese. Mostra che diventa un caso, come registrava il nostro giornale (cfr. «Vernissage,» n. 40, nov ’86, pp. 94, 95). Il fino ad allora sconosciuto e appartato artista con le sue enormi e iperrealiste tele, dettagli ingigantiti di nature morte, o meglio «moribonde, brulicanti di una vita putrefatta», attira inaspettatamente schiere trasversali di visitatori e l’attenzione, tra gli altri, di Federico Zeri, che di lui ha scritto: «Lo considero un pittore grande, veramente grande, che ha assorbito, digerito e rielaborato la Pop art, l’iperrealismo e che conosce alla perfezione la pittura antica e moderna». Dall’affresco di Piero della Francesca raffigurante la «Grandezza di Costantino» Wolfango nel 1984 ha tratto una copia a grandezza maggiore del vero con ipotesi di ricostruzione delle parti mancanti.
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