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Nel Lamento funebre di Bernabò Visconti, della fine del Trecento, Matteo da Milano citò la magnifica arca con il monumento equestre del signore di Milano oggi conservata nel Museo d’arte antica del Castello Sforzesco e scrisse con enfasi che «d’oro e d’argento è coperto il barone». Non solo «il barone» in realtà, ma anche le figure delle Virtù e altri dettagli rilucevano allora di decori preziosi. Con i secoli lo sporco incorporato nei vecchi protettivi cerosi aveva però annerito cavallo e cavaliere, sarcofago e figure allegoriche, offuscandone i bagliori. Dopo la lieve pulitura compiuta nel 2002 da Nicola Restauri (era allora direttore delle Civiche raccolte d’arte Maria Teresa Fiorio), gli stessi restauratori hanno appena concluso un nuovo intervento conservativo e di pulitura, diretto da Laura Basso, conservatore del Museo d’arte antica, e accompagnato da minuziose indagini conoscitive e rilevamenti delle tecniche esecutive: liberato da quel denso strato di sporco, il marmo di Candoglia dell’arca ha recuperato il suo dolce colore originario e gli ori e gli argenti hanno ritrovato la loro luce. Merito delle miscele di prodotti utilizzate per rimuovere i vecchi protettivi senza intaccare la patina del tempo e conservando anche le tracce dei decori a lamina metallica perduti, per porre in evidenza l’apparato decorativo anche dove la materia era scomparsa. Il restauro ha poi confermato la presenza di lamina d’argento su capelli e barba, sulla cotta e in varie parti dell’armatura, ma ha anche riportato alla luce tracce di pigmenti costosissimi, come il blu di lapislazzuli e il rosso cinabro (ora divenuto nero) sull’impresa di Bernabò e sulle vesti delle figure allegoriche, mentre si va decifrando l’iscrizione che, «in loop», corre sull’armatura. Commissionato come statua equestre e poi divenuto luogo di sepoltura di Bernabò, il monumento (ante 1363-1385 circa) è un capolavoro della statuaria medievale, opera dell’allora richiestissimo Bonino da Campione, che per il superbo cavallo dovette guardare al tardoantico Regisole di Pavia. Per quattro secoli l’opera rimase nella chiesa palatina di San Giovanni in Conca, per essere poi musealizzata nell’ex-chiesa di Santa Maria degli Umiliati e approdare infine, con la sua magnetica presenza, al Castello Sforzesco.
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