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«Facciata del Teatro alla Scala» (1852), di Angelo Inganni

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«Facciata del Teatro alla Scala» (1852), di Angelo Inganni

Pas de deux | Giovanni Verga illustrato

L’iconografia delle «Novelle» dello scrittore siciliano ripercorsa da Arabella Cifani e Stefano Causa

Arabella Cifani, Stefano Causa

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Giovanni Verga illustrato. Che cosa raccontano e che cosa ci fanno immaginare le sue Novelle, fra donne bruciacuore e neve fresca su Milano

Mi sono sempre piaciute le novelle e gli scritti milanesi di Verga: li ho letti con passione per la prima volta al liceo. Mi hanno sempre fatto sognare, anche oltre il necessario, e come unica giustificazione da portare quella di averli letti a 15 anni. La lettura di Mastro don Gesualdo e dei Malavoglia è stata un obbligo (anche se partecipato), scolastico, ma le novelle, che a scuola non si studiavano, sono proprio l’altra faccia della luna rispetto a Verga classico.

Le storie del castello di Trezza, ad esempio, si prestano per fantasticare su qualsivoglia rudere diroccato di castello si dovesse incontrare in Italia anche durante il periodo estivo: per ricostruire «coll’immaginazione le vòlte di queste arcate, alte, oscure, in cui luccicano gli avanzi delle dorature» con un «camino immenso, affumicato (…) e quell’alcova profonda come un antro, tappezzata a foschi colori». La descrizione ci rispedisce rapidamente in pieno crepuscolo romantico (siamo nel 1877) e la storia, poi, oggi quasi ridicola, tra Matilde, «una graziosa bruna, palliduccia, delicata, nervosa, con grandi e begli occhi neri e profondi», malmaritata, e l’insignificante Luciano che ci prova (e ci riesce), raccontando novelle horror, è quanto di oggi più improbabile si possa leggere. Il tutto ha per sottofondo un tripudio di fantasmi, tempeste, paggi ricciuti e donzelle pallide e tutto l’armamentario di scena necessario. Finisce come doveva finire: Matilde cade in un abisso e si trascina dietro quell’allocco del Luciano. Se Matilde fosse andata a lavorare avrebbe avuto meno grilli per la testa e avrebbe anche potuto scegliere meglio, magari uno gagliardo che faceva arrampicata su roccia e la teneva su in caso di pericolo.


Questa storia però, come quella di apertura Primavera, ambientata a Milano, e La coda del diavolo, che si svolge a Catania, sono contemporaneamente specchio della coeva pittura lombarda e non si può non pensare leggendo questi testi ai quadri di Angelo Inganni, Mosè Bianchi e di Domenico e Gerolamo Induno. Il primo per le vedute, mirabili, di Milano restituita nel suo spessore urbanistico e umano (quelle con la neve sono particolarmente croccanti) e gli altri tre per la raffigurazione di quelle giovani donne «bruciacuore» che possiamo lecitamente immaginare come protagoniste delle novelle verghiane.


Il Verga delle novelle è un gineceo e gli uomini vi hanno solo il ruolo secondario di porteur, come nei balletti classici. Non andando in ufficio, non facendo nulla e non pagando le tasse, le signore verghiane sono tutte assatanate di sesso, infelici e scocciatissime dei mariti che le famiglie hanno loro imposto. L’adulterio è la loro fissa e più sono sorvegliate e più distillano idee su come farsi gli affari loro senza che nessuno se ne accorga. Certo, le «Novelle rusticane» del 1883 sono un altro film ma volete mettere quelle della serie «Per le vie», dello stesso anno (come se Verga si fosse diviso in due fra il dottor Jekyll e mister Hyde) con storie come In piazza della Scala, Al veglione, Il canarino del n. 15Via Crucis? Tutti amori finiti mali, spesso col morto o con fanciulle che essendosi concesse, solitamente a squattrinati poeti e musicisti, sono ormai perdute, soprattutto perché il Poldo di turno se ne va e si sposa una vergine, e magari le lascia anche incinte. Nelle novelle milanesi fa sempre un freddo cane (e certo uno che veniva da Catania ci faceva caso). Nei sottotetti dove abitano le ragazze perdute «l’acqua gelava nel catino» e «Piazza del Duomo era tutta bianca di neve». Come non ricordare tele come «Pane e Lagrime» di Domenico Induno o le varie «Derelitte» di Giuseppe Molteni?


Ma quanto spazio ci separa ormai da questi mondi! Eppure ci sono novelle, come La festa dei morti che fa parte della serie Vagabondaggio (1887) che non lasciano indifferenti neppure oggi. Verga vi concentra una forte vena macabra che solitamente nella sua opera non esprime in questi termini. Sotto una chiesa abbandonata e appollaiata su uno scoglio altissimo vi è una «caverna sotterranea, battuta dalle onde, piena di rumori e di bagliori sinistri, di cui il riflusso spalancava la bocca orlata di spuma nelle tenebre». Nel giorno dei morti i marinai vedono illuminarsi quell’antro poiché i defunti si levano «colle mani pallide in croce» e «scendono a convito nella caverna sottostante». Le descrizioni di Verga sono quelle della Cripta dei Cappuccini di Palermo (un’esperienza che tutti dovrebbero fare una volta nella vita), con «defunti d’ogni età e d’ogni sesso: guance ancora azzurrognole, come se fossero state rase ieri l’ultima volta, e bianche forme verginali coperte di fiori; mummie irrigidite nei guardinfanti rigonfi, e toghe corrose che scoprivano tibie nerastre». E i morti scheletriti a pranzo, non potendo ovviamente ingoiare nulla, si guardano fra di loro e considerano: «Più nulla! più nulla! Né la tua treccia bionda, che ti cade dal cranio nudo. Né i tuoi occhi bramosi, pei quali egli sfidò il disonore e la morte, onde portarti il bacio delle labbra che non ha più. Ti rammenti, i baci insaziati che dovevano durare eterni? E neppure i morsi acuti della gelosia, il delirio sanguinoso che mise in mano a quell’altro l’arma omicida». Ma qui per illustrare questo abisso di terrori ci va altro che la pittura italiana dell’epoca, ci va Arnold Böcklin con la sua iconica «Isola dei morti», la cui prima versione, e non è un caso, è del 1880, mentre le altre quattro si scalano fino al 1886. [Arabella Cifani]


Stupido Ottocento. Una questione di copertine. La storia della pittura dell’Ottocento italiano attraverso la veste grafica dei libri di Verga, Capuana, Nievo

Non sono certo i primi indumenti capitati la mattina aprendo l’armadio. Come soglia del testo la copertina di un libro o un disco non deve essere casuale. Rispettosa o dispettosa, disvelante o stravolgente essa rimane un consapevole atto critico. A maggior ragione ove debbano convivere temi e immagini di fama e fortuna diverse. Ancor oggi Ugo Foscolo e Alessandro Manzoni sono (scolasticamente) più noti di pittori come Pelagio Palagi e Francesco Hayez. Così, nel paese del melodramma Giuseppe Verdi è immensamente più popolare del suo maestro preferito, il napoletano Domenico Morelli.

La faticosa riabilitazione del nostro Ottocento, lo «stupido secolo italiano» come lo apostrofava Roberto Longhi, scorre lungo il canale dei romanzi e delle antologie di poeti. Specie dal dopoguerra, in anticipo sugli storici d’arte gli italianisti hanno immaginato un possibile controcanto figurativo ai Porta, ai Di Giacomo, ai Tommaseo o ai Fogazzaro. Si trattava di trovare i vestiti giusti per ciascuno. Uno dei vertici dell’editoria degli anni Sessanta, i due volumi in cofanetto della Poesia dell’Ottocento curati da Carlo Muscetta ed Elsa Sormani per Einaudi sono accompagnati da un corredo che forma una delle maggiori e più rare collezioni di grafica dall’epoca napoleonica a quella umbertina.

In copertina compare, volenterosa approssimazione a Degas, un acquerello di Zandomeneghi. Né mancano, nella breve appuntita prefazione di Muscetta, approssimazioni brillanti passate quasi a luogo comune (per esempio: il confronto tra il Carducci «barbaro e buzzurro» e l’altare della Patria a Roma, sotto «il sole spietato che ne illumina tutta la retorica falso-antica»). Dieci anni prima sempre Casa Einaudi scelse un pittore lombardo, il Piccio, per le Confessioni di un italiano (e da allora, per molti, la pagina di Nievo, che è meglio di Manzoni ma non è esemplare come Manzoni, significa i termini di quel corrispettivo figurativo).

A scendere nel tempo, verso gli apici degli anni 1880, se i migliori Pinocchi della nostra vita sono legati ai loro primi illustratori storici, un discorso diverso riguarda le frange dei veristi a fine secolo. E se per la copertina del Marchese di Roccaverdina Garzanti profitta nel 1974 di un disegno dell’autore stesso, Luigi Capuana; per La Bocca del lupo del torinese di acquisto ligure Remigio Zena, un libro che piaceva molto a Montale, la Biblioteca Universale Rizzoli nel 1974 dà carta bianca al grafico (John Alcorn) che sceglie una stampa coeva del mercato di Genova. La copertina è corretta al millimetro; mogia, al limite, come sono le incisioni ottocentesche quando si camuffano da cartoline in bianco e nero. Quanto a Longhi ne avrebbe gioito: lui che, dell’Ottocento, salvava incisori e illustratori.

Per Verga, che tira avanti fino al 1922, la grande distribuzione ha in serbo una focalizzazione sul pittore barlettano Giuseppe De Nittis (1846-84), scomparso a Parigi neanche quarantenne. Nel corso degli anni Ottanta la collana degli Oscar Mondadori immette sul mercato un tutto Verga illustrato da opere di De Nittis tratte dal Museo di Barletta e da una collezione milanese. Quella di imporre sulle spalle di un contemporaneo la responsabilità di fare da portale d’ingresso al maggior scrittore italiano dell’Ottocento dopo Nievo e Collodi non è scontata se, negli stessi anni, Garzanti rimette in gioco le dispense verghiane di Giacomo Debenedetti (scomodando Sciascia per la quarta), optando per una copertina aniconica di composta eleganza. Come, d’altronde, tutta la serie «Saggi Blu» dell’editore milanese.

In realtà il Verga mondadoriano degli anni 1980 è una croce miliare della bibliografia su De Nittis. Le opere mature del barlettano, che annacquano Degas in una chiave più aneddotica, si adattano a introdurre il quartetto del «Verga prima di Verga» (Una peccatrice, Storia di una capinera, Eva, Tigre Reale). In un chiasmo perfetto il De Nittis a libro paga di Goupil, il De Nittis che fa fare un monte di soldi (innanzitutto alla moglie), il De Nittis specialmente noto, è chiamato a introdurre e, così, a posarsi come lente sul giovane Verga degli anni Sessanta, oggi largamente poco letto. Mentre il mal noto De Nittis prima di Parigi, il De Nittis degli umili (ossia, dei vinti) e degli scorci del Vesuvio, il De Nittis da storici d’arte, viene chiamato a impegnare le copertine del Verga maggiore (l’unico noto fin dalla scuola e poi chissà), l’uomo delle Novelle, dei Malavoglia del 1881 e, naturalmente, del Mastro. Verga riletto da De Nittis? O De Nittis riletto da Verga? Chi vincerà in questo tiro alla fune? [Stefano Causa]


 

La copertina di una raccolta di novelle di Giovanni Verga, degli Oscar Mondadori

La copertina di una raccolta di novelle di Giovanni Verga, degli Oscar Mondadori

La copertina della raccolta «Tutte le novelle», di Giovanni Verga

La copertina del libro «Il marchese di Roccaverdina», di Luigi Capuana

La copertina del libro «Le confessioni di un italiano», di Ippolito Nievo

La copertina di uno dei due volumi «Poesia dell’Ottocento», a cura di Carlo Muscetta ed Elsa Sormani

La terza versione del dipinto «L’isola dei morti» di Arnold Böcklin

«La derelitta», di Giuseppe Molteni. Foto: Musei di Brescia

«Pane e lacrime» (1855), di Domenico Induno

Arabella Cifani, Stefano Causa, 24 agosto 2023 | © Riproduzione riservata

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