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«The Kitbasher», di Oscar Giaconia, Fondazione Coppola, Vicenza. Veduta dell’allestimento. Foto: David Sarappa

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«The Kitbasher», di Oscar Giaconia, Fondazione Coppola, Vicenza. Veduta dell’allestimento. Foto: David Sarappa

Oscar Giaconia è the Kitbasher

Nel torrione medievale della Fondazione Coppola 26 opere dell’artista milanese che, mascherandosi e utilizzando materiali insoliti, mette in crisi la figura dell’artefice

Matteo Mottin

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Il kitbashing è una pratica adottata negli ambienti del modellismo e della creazione di effetti speciali per il cinema che consiste nel combinare pezzi provenienti da diversi kit di montaggio per costruire un prototipo, un modellino di cui non esiste uno specifico set di pezzi originale prodotto in serie. Dalla decostruzione di un oggetto esistente, attraverso la manomissione e il tradimento delle sue premesse, si arriva a una costruzione ex novo, lontana, inedita, dove l’unione di diverse parti di vagoni ferroviari può diventare la scocca di un’astronave, o i pezzi di un caccia bimotore della seconda guerra mondiale ed elementi di un fuoristrada da ricognizione possono dare forma all’ultima versione della Batmobile.

L’assemblaggio mimetico di tecniche e materiali tra loro distanti, l’idea di trasformazione continua, così come la volontà di creare immagini a partire da elementi dalla difficile coesistenza, sono alcuni dei nuclei su cui si fonda la ricerca di Oscar Giaconia (Milano, 1978), di cui è possibile visitare, fino al 21 gennaio 2024, la personale alla Fondazione Coppola di Vicenza. La mostra presenta una selezione di 26 opere realizzate negli ultimi 15 anni e si articola sugli otto livelli del torrione medievale della Fondazione, in un allestimento che nel suo svilupparsi di piano in piano richiama la natura stratificata del lavoro di Giaconia.

A un primo sguardo le opere che ritraggono soggetti umani e figurativi sembrano oli su tela eseguiti con tecniche classiche, ma osservandoli in maniera approfondita si ha la sensazione, quasi il sospetto, che qualcosa non torni. Ci si rende progressivamente conto che l’alto grado di dettaglio non rende i soggetti più chiari, espliciti, vividi, ma al contrario opera un meccanismo di sottrazione. Proseguendo nell’osservazione, il soggetto, eseguito con una resa simile a quella di una fotografia analogica, perde gradualmente di peso nella composizione, e la nostra attenzione viene attratta dalle velature, dai toni di colore, dalla pasta pittorica.

Si ha l’impressione che la figura umana, o la forma riconoscibile di un oggetto o di un animale, gli elementi che dapprima ci hanno attratto e poi accompagnato all’interno dell’immagine, siano gradualmente svaniti lasciandoci soli in un territorio sconosciuto, un deserto di ombre senza alcun punto di riferimento.

Smarriti, in cerca di un qualche tipo di certezza spostiamo lo sguardo verso la didascalia, e ci coglie un’ulteriore sensazione di spaesamento: «olio su carta lubrificata in teca di salpa e miscela antimicrobica» si legge sotto a «Hoysteria (The Pig Pit)» (2022), esposta al terzo piano; l’opera «The Kitbasher» (2020), della serie che dà il titolo alla mostra, è composta da «olio su fibra cellulosica alla gelatina plasticizzata in teca di salpa e silicone»; le opere della serie «Calabiyau» (2021), allestite all’ultimo piano della torre medievale, sono realizzate con «ossidi, fiele di bue, coagulante liquido, inchiostro, acrilico, tempera, sanguigna, iodopovidone, carta dielettrica su acquaforte lubrificata in teca di salpa plastificata».

Lo studio sui materiali tramite il quale Giaconia cerca di far coesistere sostanze che tra loro presentano forti contrasti, le reazioni che queste innescano evolvendo nel tempo, anche in maniere poco prevedibili, instabili e difficilmente controllabili da parte dell’artista, costituiscono la base di ogni opera. Questo aspetto ci porta a un’ulteriore riflessione sui soggetti: Giaconia spesso rappresenta capitani, sciamani e militari, figure che vengono comunemente associate alla sicurezza e al controllo. Dipingendole con tecniche di difficile gestione, non solo va a disinnescare l’idea di solidità che queste rappresentano, ma va anche a mettere in crisi, in maniera quasi parodistica, la figura dell’artefice che crede di tenere le redini di ciò che crea e di conoscere ogni segreto di ciò che produce.

Sul piano fisico, la materia pittorica entra in competizione con i soggetti rappresentati, che cercano di resisterle comunicando su un piano altro, di natura simbolica. In questa tensione tra due poli operata su piani paralleli, l’artista si comporta come un parassita, un organismo intermediario, creatore di dialoghi e connessioni, catalizzatore di decomposizioni e digestioni: per la creazione di ogni soggetto umano, l’artista si fa truccare da esperti di make-up cinematografico, vestendosi con costumi realizzati con stomaci di mucca da lui stesso conciati come pelli.

Giaconia si fotografa così mascherato, e le fotografie diventano il riferimento dei suoi futuri dipinti. Se questi travestimenti alludono alla facoltà mimetica dell’immagine pittorica, l’uso degli stomaci conciati si rifà al continuo processo digestivo a cui sottopone le figure e i materiali prodotti. Ogni immagine creata dall’artista è provvisoria, in attesa di essere smontata e riassemblata in un incessante processo di kitbashing.

«The Kitbasher», di Oscar Giaconia, Fondazione Coppola, Vicenza. Veduta dell’allestimento. Foto: David Sarappa

Matteo Mottin, 19 dicembre 2023 | © Riproduzione riservata

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Oscar Giaconia è the Kitbasher | Matteo Mottin

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