Veduta dell’installazione della mostra «A New Golden Age of Guano» di Andrea Kvas (particolare)

Foto: Laura Majolino

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Veduta dell’installazione della mostra «A New Golden Age of Guano» di Andrea Kvas (particolare)

Foto: Laura Majolino

Andrea Kvas: non mi piace indugiare in ciò che so già fare

Dopo una pausa di dieci anni Spazio Morris riprende l’attività con un’installazione immersiva dell’artista triestino

Spazio Morris, laboratorio di ricerca fondato dalla film-maker e collezionista Alessandra Pedrotti e dall’artista Marta Pierobon, riprende la sua programmazione dopo una pausa di dieci anni con la mostra «A New Golden Age of Guano», personale di Andrea Kvas (Trieste, 1986) ospitata nello Studio Giovanni de Francesco, a Milano. Il progetto consiste in una installazione site specific immersiva realizzata dall’artista nei sette giorni precedenti l’opening, durante i quali il pubblico poteva accedere liberamente allo spazio per seguire il work in progress dell’opera. La mostra, visitabile fino al 12 maggio, è accompagnata da un testo dell’artista Valerio Nicolai.

In questa conversazione, Andrea Kvas espone la genesi del progetto, condividendo riflessioni sul suo particolare approccio alla pittura.

La sua personale si è aperta al pubblico dieci giorni prima dell’inaugurazione ufficiale. In che modo è stato coinvolto da Alessandra Pedrotti e Marta Pierobon, e perché avete deciso di aprire la mostra con questa modalità?
Mi hanno invitato con la richiesta di lavorare alla mostra direttamente nello spazio, una modalità che riprende vari miei progetti passati. Ci siamo accorti che, con un progetto di questo tipo, sarebbero sorti dei problemi legati alla comunicazione: come si comunica una mostra le cui opere non sono ancora state realizzate? Abbiamo selezionato un mio lavoro, l’abbiamo fotografato e ne abbiamo stampate mille copie in scala 1:1 su una carta di qualità usomano, e questo è diventato il materiale di partenza, la materia prima su cui ho costruito il progetto. Oltretutto, è la prima volta che lavoro con materiale fotografico riprodotto.

Il suo lavoro si basa su una sperimentazione continua con i materiali.
Assolutamente. In mostra ci sono piani e spazi che mi servono per mescolare il pigmento secco con il legante. Il tavolo è come se fosse una tavolozza. È una situazione in cui tavolozza e dipinto si compenetrano, stanno insieme. Gran parte del mio lavoro, e le dinamiche che creo affinché il lavoro nasca e si sviluppi, parte dall’idea di tavolozza. Il posto in cui vai a mescolare e scaricare il colore, la zona che suscita meno interesse rispetto ai risultati dell’arte pittorica. Ma questo disinteresse genera spesso cose meravigliose. Sto tentando di dare il giusto spazio a quella dinamica, di fare in modo che esista, senza che ci sia un luogo in cui il colore vada in una maniera consapevole. Questo spazio, e l’insieme di oggetti che contiene, per me è tutto tavolozza. Non c’è lavoro finito. È un limbo che permette di aprire la pittura astratta a una situazione altra, diversa.

Fino a che punto le reazioni che innesca su questa tavolozza espansa sono controllate?
Ogni volta che impari qualcosa crei una sorta di dogma, di paletto. Capisci che una cosa si fa in una certa maniera, che un effetto si ottiene in un determinato modo. È una situazione che io rifuggo costantemente, perché non mi piace indugiare in qualcosa che so già fare solo perché l’ho imparata e la saprei rifare bene. Quindi, ogni volta che approccio un nuovo lavoro, c’è sempre una parte che viene deliberatamente sabotata, o ricerco interazioni che non conosco perfettamente, in modo da mantenere una dinamica di esplorazione. È molto complesso, perché vado sempre contro l’abitudine, contro l’economia del lavoro, contro il fare le cose che so fare nel minor tempo possibile, con il minor uso di materiale possibile, con il minor dispendio di energie.

Domanda classica: nella sperimentazione, come fa a sapere quando fermarsi?
Mi fermo quando incontro qualcosa che per me è nuovo e che non capisco completamente. Che non significa per forza trovare una particolare reazione tra i materiali, ma banalmente un nuovo tipo di composizione.

Da dove viene il titolo del progetto?
«A New Golden Age of Guano» è un po’ uno scherzo, perché l’immagine che abbiamo scelto sembra un uccellino, e la sua riproduzione esageratamente ampia, accostata a un materiale che sto usando molto in questo periodo, una pasta di cellulosa fatta con carta igienica, mi hanno suggerito l’immagine del guano.

Veduta dell’installazione della mostra «A New Golden Age of Guano», di Andrea Kvas. Foto: Laura Majolino

Come mai avete scelto proprio quell’opera?
È un’opera che segna un momento speciale nel mio lavoro, cioè il passaggio dall’uso di resine naturali a resine sintetiche. In particolare, è l’ultimo lavoro che ho realizzato usando resine naturali. Quel cerchio nero, che possiamo vedere come l’occhio del volatile, è un test per la damar, una resina naturale utilizzata anche da Sigmar Polke. Ho fatto molta ricerca sui materiali e le tecniche impiegate da Polke nel corso degli anni. Nel catalogo della sua personale per il Padiglione della Germania Ovest della Biennale di Venezia del 1986, in cui espose un grosso meteorite e dipinse le pareti con un materiale il cui colore mutava a seconda dell’umidità e della temperatura, descrive in maniera precisa i materiali utilizzati. Il problema è che la damar ha la caratteristica di essere reversibile, e come tutte le resine naturali non è stabile e non asciuga mai completamente. Nel mio lavoro usavo resine naturali perché sono lucide e permettono di creare superfici che non possono essere percepite nella loro totalità da un singolo punto di osservazione. Compare sempre un riflesso e ti devi per forza spostare per osservare l’opera, non puoi guardarla stando fermo.

Passando alle resine sintetiche i lavori hanno perso questa caratteristica?
In realtà no. Ho scoperto che alcune resine sintetiche riescono a creare lo stesso punto di luce pur avendo una resistenza meccanica e un’elasticità maggiori rispetto a quelle naturali. Sono molto stabili e sono anche più economiche.

Lavorare con un materiale che a parità di resa costa meno può avere un’influenza sul modo di dipingere?
Cerco sempre delle dinamiche che possano mettermi a mio agio, perché il primo pensiero è distruggere. Se mi ritrovo in una situazione dove sono in soggezione rispetto ai materiali che utilizzo, è molto difficile che riesca a fare quel salto. Ho la necessità di lavorare con materiali non troppo preziosi.

Che cosa intende con «distruggere»?
Non lo intendo in maniera fisica, effettiva. Le faccio un esempio: quando si hanno delle scarpe bianche nuove c’è un periodo iniziale in cui si riesce a tenerle pulite, poi scatta qualcosa, le scarpe non sono più bianche e si è liberi di farci quello che si vuole, di sporcarle, di giocarci a pallone. Pensi alle scarpe bianche come a un materiale pittorico costoso, e la soggezione che può mettere quando si va ad agire su esso. Quando tengo delle lezioni, e vedo molti studenti in soggezione nei confronti della tela, consiglio di produrne tante, di lavorare contemporaneamente su più tele, in modo da togliere la preziosità ma anche la pesantezza, la gravità del dedicarsi a un unico lavoro. In mostra i materiali di supporto, i pannelli a parete, così come il tavolo al centro della stanza, sono di cartone. Lo si può tagliare, spezzare, ricomporre, ci si può fare tantissime cose, e questo mi dà la sensazione di lavorare con una scenografia. In ambito scenografico si hanno pochissimi materiali, e con quelli si deve riuscire a fare più cose possibili.

Sta lavorando alla mostra in un’ottica scenografica?
È un atteggiamento che ho sempre avuto, e lo conservo anche quando lavoro sulle tele, o quando le allestisco. La dinamica scenica c’è sempre, ha a che fare con il creare le condizioni per cui una tela possa essere percepita in un determinato modo, e che sia in grado di guidarti verso una certa dinamica percettiva. Nel mio caso, la classica idea di appendere un lavoro con la mediana a un metro e mezzo da terra è sbagliata, perché non è detto che quel lavoro funzioni allestito in modo canonico. Una mostra formata solo da dipinti è sempre una rappresentazione, una proiezione. Nel caso di questo progetto, gli elementi fissi iniziali sono le mille stampe, il cartone e alcune cornici a giorno molto economiche, oltre a colori acrilici da pelletteria, molto opachi e molto trasparenti, usati per dipingere scarpe e borse di alta moda che mi sono stati donati dagli stessi produttori pochi anni fa. Molto spesso, quando scelgo un colore, non è perché ho in mente di realizzare una determinata cosa, ma è l’esatto contrario. Voglio vedere che cosa può accadere con i materiali che ho a disposizione.

Matteo Mottin, 19 aprile 2024 | © Riproduzione riservata

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