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Andrea Rurale
Leggi i suoi articoliNel labirinto affascinante e frammentato del mercato dell’arte, ogni tentativo di lettura sistemica si scontra con una costante: l’assenza di riferimenti chiari. Se un collezionista decide oggi di acquistare un’opera, si muove in uno scenario in cui i criteri di valutazione sono spesso impliciti, opachi, frammentari. Non sorprende, allora, che la fiducia - pilastro invisibile di ogni transazione - sia tanto difficile da costruire quanto essenziale da mantenere.
Il mercato dell’arte ha caratteristiche che lo rendono unico: bassissima frequenza di scambi, scarsissima standardizzazione, alta incidenza di trattative private, costi di transazione elevati. La conseguenza è una struttura intrinsecamente inefficiente, dove il valore è spesso frutto di interpretazioni più che di evidenze. In questo contesto, il collezionista - specie se alle prime armi - si trova privo di bussola. Come può stabilire se un prezzo è congruo? Su quali basi può valutare il potenziale rendimento di un acquisto? Dove reperire informazioni affidabili?
La domanda di punti di riferimento è fortissima, e cresce parallelamente all’ingresso nel mercato di nuovi soggetti: Millennials, Gen Z, ma anche operatori della finanza privata che includono l’arte nei portafogli di wealth management. Questa nuova domanda si scontra però con un’offerta informativa parziale, costruita quasi esclusivamente attorno al mercato secondario (le aste), che rappresenta una porzione minoritaria delle reali transazioni.
Eppure, gli strumenti per colmare questo gap esistono. Le piattaforme come Artnet o Artprice aggregano milioni di dati d’asta e offrono strumenti comparativi. Ma ancor più interessanti, dal punto di vista analitico, sono i modelli econometrici - come l’hedonic pricing o le regressioni repeat-sales—che permettono di costruire indici di riferimento per monitorare l’andamento dei prezzi nel tempo, depurandoli da variabili soggettive. Il Mei Moses Index, oggi sotto l’egida di Sotheby’s, ne è l’esempio più celebre: un indicatore che misura la variazione dei prezzi basandosi solo su opere rivendute più volte, isolando così il “movimento puro” del mercato.

Per questo motivo, molti ricercatori cercano di comprendere i fattori che influenzano i prezzi dell’arte, prevedere le tendenze di mercato e acquisire una visione più approfondita delle dinamiche che regolano il settore (Peluso et al. 2017; Kraeussl e Logher 2010). Gli studi in questi ambiti contribuiscono a una comprensione più profonda del mercato dell’arte, offrono spunti e raccomandazioni per collezionisti, investitori e decisori politici, e orientano le strategie di case d’asta, artisti e galleristi (Peluso et al. 2017). Si tratta di un campo in continua evoluzione, che si adatta ai cambiamenti del mercato e alimenta anche lo sviluppo di nuove tecniche di analisi dei dati.
Questi strumenti, già utilizzati per finalità fiscali, assicurative e di pianificazione patrimoniale, potrebbero diventare standard operativi anche per i collezionisti più attenti. I modelli ibridi, che combinano caratteristiche delle opere e dati di mercato, offrono oggi una precisione superiore alle stime tradizionali, riducendo gli errori di valutazione fino al 35%.
Ma qui emerge una tensione fondamentale: la tensione tra arte come linguaggio simbolico e arte come asset class. Se da un lato l’opera mantiene un’aura irriducibile a numeri e coefficienti, dall’altro le dinamiche di acquisto e scambio richiedono trasparenza, confrontabilità, tracciabilità. Non si tratta di ridurre l’arte a una formula, ma di creare strumenti che aiutino a leggerla anche come parte di una strategia di lungo periodo.
In un mercato sempre più globale e competitivo, la costruzione di indici affidabili e condivisi non è solo un esercizio tecnico, ma una condizione per rendere l’ecosistema dell’arte più inclusivo, attrattivo e sostenibile. Come avviene in altri settori, la disponibilità di metriche comuni favorisce l’ingresso di nuovi attori, riduce le asimmetrie informative e aumenta la resilienza del sistema.
Il collezionista del futuro - che spesso è già presente - non chiede certezze assolute, ma strumenti per orientarsi. In un mondo dove tutto si misura, anche l’arte deve imparare a raccontarsi con maggiore rigore, senza perdere la propria complessità. È una sfida culturale prima ancora che tecnica. Ma è una sfida che vale la pena affrontare, se vogliamo che il mercato dell’arte diventi, finalmente, un luogo accessibile, leggibile e condiviso.

Sotheby's, Ola Masters Evening Auction. Credit Michael Bowles, Getty
Come si misura il valore di un’opera? Due modelli per orientarsi
Nel mercato dell’arte, stabilire il “giusto prezzo” di un’opera è spesso più complesso che in altri settori, perché ogni oggetto è unico. Per cercare di portare rigore in questo contesto, economisti e analisti utilizzano due modelli principali:
Regressione edonica (Hedonic Pricing)
È un modello statistico che cerca di spiegare il prezzo di un’opera d’arte sulla base delle sue caratteristiche. In pratica, si analizzano tanti dati su opere simili (dimensioni, tecnica, anno di creazione, autore, numero di mostre, ecc.) per capire quanto ciascun fattore incide sul prezzo finale.
Esempio: un’opera più grande o in ottime condizioni tende a valere di più; un quadro passato in mostra o realizzato in un periodo chiave dell’artista può ottenere un premio di valore.
Repeat-Sales Model (Indice Mei Moses)
In questo caso si osservano solo opere che sono state vendute più di una volta, e si confrontano i prezzi nelle diverse vendite. In questo modo si elimina la variabile “qualità” (che resta costante, trattandosi della stessa opera) e si misura il puro andamento del mercato nel tempo.
Esempio: se un quadro venduto nel 2005 per 100.000 euro è stato rivenduto nel 2024 per 250.000, si può stimare che il valore di mercato in quel segmento sia cresciuto del 150%.