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Un’immagine dal convegno

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Non dovremo più avere paura dell’ingiustizia di Stato

Con un convegno al Ministero, il sottosegretario Vittorio Sgarbi ha radunato esperti italiani e internazionali, pubblici e privati, per iniziare a rivedere le norme in fatto di circolazione ed esportazione di opere d’arte

Anna Somers Cocks, Vittorio Sgarbi

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Potrebbe questo essere il momento della svolta? Il 21 aprile, al Ministero della Cultura si è tenuta un’intera giornata di discussione dal titolo «La circolazione delle opere d’arte: modelli europei» sul sistema italiano dell’esportazione di opere d’arte nel confronto con i regimi degli altri Paesi. La presenza di professionisti diversi (avvocati, antiquari, collezionisti, storici dell’arte, funzionari e direttori di musei) ha dimostrato quanto il tema sia sentito.
Tra i relatori, moderati dal professor Fabio Canessa, c’erano: Stefania Bisaglia, dirigente del Ministero della Cultura, esperta in circolazione delle opere d’arte; Caterina Bon Valsassina, ex direttore generale Archeologia, Belle arti e Paesaggio del Ministero della Cultura (MiC); Giuseppe Calabi, avvocato esperto in diritto dell’arte; Francesca Cappelletti, direttrice della Galleria Borghese; Claudio Consolo, professore di Diritto processuale civile alla Sapienza di Roma; Alessandra Di Castro, antiquario; Gloria Gatti, avvocato esperta del patrimonio culturale; Peter Glidewell, esperto d’arte; Daniela Melchiorre, magistrato; Philippe Plantade, giurista francese; Francesco Salamone, avvocato specializzato nel diritto delle opere d’arte e docente universitario; Eike Schmidt, direttore delle Gallerie degli Uffizi; Salvatore Settis, archeologo e storico dell’arte; Matteo Smolizza, direttore della casa d’aste Bonino; Antonio Tarasco, Capo dell’Ufficio Legislativo del Ministero della Cultura; Pietro Valsecchi, collezionista e produttore cinematografico (oltre all’autrice di questo articolo, Anna Somers Cocks, già curatrice del museo Victoria & Albert ed ex direttore di «The Art Newspaper», Ndr).

Caterina Bon Valsassina ha affermato che i funzionari delle Soprintendenze dovrebbero chiedersi: «Quale sarebbe il danno se l’opera espatriasse? Non si deve guardare solo al particolare ma bisogna invece considerare il contesto dell’opera. Attualmente sembra che basti la "rarità" del manufatto a giustificare la notifica da parte dell’ufficio esportazione». Francesco Salomone ha enfatizzato che il sistema italiano non ha nessuna credibilità internazionale: non è legittimo revocare retroattivamente una licenza d’esportazione perché vi è stata una nuova, «migliore», attribuzione dell’opera. Nell’attesa, Salamone ha avanzato le prime proposte di riforma della legge attuale e che non avrebbero bisogno di essere votate in Parlamento. Tra queste:

1. limitare i casi di annullamento dell’«Attestato di libera circolazione» oltre il termine dei 12 mesi alle sole ipotesi in cui vi sia stato un accertamento giudiziale di merito da parte di un giudice penale in ordine a una consapevole mendace o falsa rappresentazione;

2. gli «Uffici esportazione» si dovrebbero rigorosamente attenere al Codice  che impone il vincolo/diniego all’esportazione solo in presenza di un documentato e riscontrato interesse culturale particolarmente importante/eccezionale, ponendo così fine all’attuale «inflazione» del vincolo, che viene imposto oggi anche per beni privi di un comprovato interesse culturale;

3. certezza dei tempi in tema di rilascio dei titoli per l’esportazione, anche al fine di rendere più competitivo l’operatore italiano rispetto a quello straniero;
4 istituire e rendere fruibile al pubblico il database dei beni notificati, per garantire una diffusa conoscenza del nostro patrimonio culturale;

5. al fine di agevolare l’ingresso di opere d’arte di cui sia accertata la legittima provenienza estera, estendere le ipotesi di rilascio della certificazione di spedizione e importazione (Cas/Cai) anche alle opere tra 50 e 70 anni di provenienza estera;

6. evitare «notifiche» in corso di mostra allo scopo di ricreare un patto di fiducia fra amministrazione e collezionista.

Eike Schmidt ha dichiarato che la pretesa di concentrare tutte le opere d’arte di una specifica cultura in un solo luogo non è soltanto pericoloso ma ne limita l’influenza internazionale. Gloria Gatti ha parlato del diritto alla proprietà privata incorporato nel Codice civile ma ha ricordato che la Corte Costituzionale ha ripetutamente rifiutato l’indennizzo in compensazione per la notifica di un’opera. Questo è in contrasto con il sistema francese di cui ha parlato Philippe Plantade e che ha citato il caso (francese) del Van Gogh di Jacques Walter, indennizzato finanziariamente dopo che il suo dipinto venne dichiarato «patrimonio dello Stato», indennizzo confermato dalla Corte di Cassazione nel 1996 e approvato dalla Commissione europea dei Diritti umani.
Anna Somers Cocks ha delineato la legge britannica, un sistema che ha sempre soddisfatto l’obiettivo di raggiungere un equilibrio tra gli interessi del privato e del pubblico e il commercio di opere, contribuendo a rendere il Regno Unito il mercato più fiorente d’Europa.

Tutti i suoi tesori artistici sono conosciuti e visibili nelle tante dimore storiche (private) perché nessuno teme una notifica arbitraria e qualora un’opera venisse giudicata «tesoro di importanza nazionale» il proprietario verrebbe compensato al prezzo del mercato grazie a una procedura del controllo delle esportazioni semplice e veloce.

Secondo Stefania Bisaglia la legge attuale è essenzialmente buona ma «degenerata»: dovrebbe essere applicata «chirurgicamente» e basata non su un concetto d’identità nazionale ma sulla natura delle opere. Francesco Petrucci e Alessandra di Castro hanno descritto come sono state notificate opere minori di nessuna importanza per la storia dell’arte italiana, come i dipinti di Pierre Subleyras e del ritrattista Robert Lefèvre, un seguace di Jacques-Louis David.

La notifica di opere del Novecento è stata considerata particolarmente dannosa dai presenti perché influisce direttamente sulla conoscenza e l’apprezzamento internazionale della cultura e creatività italiana. Il sottosegretario alla Cultura Vittorio Sgarbi ha commentato: «È stato notificato uno Schifano che era più giovane di me. Penso che nessuna opera eseguita dopo il 1920 dovrebbe essere notificata». Concorda Pietro Valsecchi: «I collezionisti non prestano le loro opere perché temono che vengano notificate. Basterebbe dar loro un passaporto. Perché il MiC blocca gli artisti invece di aiutarli a prosperare? Ho una segretaria che dedica gran parte del suo tempo a ottenere licenze temporanee di esportazione...». Ha aggiunto che qualche anno fa un Burri è stato notificato ed è bastato questo a causare un calo nel mercato internazionale per l’artista.

«Sulla circolazione delle opere d’arte, ha detto Salvatore Settis, è impossibile trovare un accordo che rappresenti un equilibrio perfetto. Si avrà sempre un compromesso fra concezione privata e pubblica della proprietà». A fine giornata è emerso che questo compromesso non sta funzionando e che tradisce gli interessi sia del pubblico che del privato. Esiste un forte movimento in favore di un cambiamento radicale della legge in quanto prodotto di un’altra epoca e non più adatto alle priorità culturali di oggi e comunque degenerata nella sua applicazione. Le frasi più d’effetto pronunciate da Sgarbi sono state: «Pesa la mano forte dell’ingiustizia» e «Non voglio più sentire che avete paura dello Stato». E così ha messo in moto una collaborazione di avvocati e esperti con il Ministero per spincere sull’acceleratore.

La prelazione al posto della notifica «Il vincolo dev’essere di conoscenza, non di polizia»
di Vittorio Sgarbi
Questo testo è una sintesi del suo intervento al convegno «La circolazione delle opere d’arte: modelli europei» (Roma, 21 aprile)

Mentre stiamo parlando, i ministri Tajani, Santanchè e Abodi presentano una pubblicità costata 9 milioni in cui la Venere di Botticelli è travestita da ciclista o da marinaia, con la volontà di aumentare il turismo e indicando, attraverso lei e la sua capacità di ammiccamento, l’opportunità di venire in Italia, con la scritta «Open to meraviglia». Non solo questa scritta va contro la legge Rampelli sull’uso della lingua italiana (a differenza di «Made in Italy», sintagma diventato talmente universale da non essere più straniero, come le parole goal e hobby, ormai entrate nel nostro vocabolario), ma «Open to meraviglia» è il paradosso di una lingua che è in parte inglese, in parte italiana. Basterebbe scrivere solo «meraviglia» per farsi capire. Credo che la pubblicità all’Italia la facciano le opere d’arte e capisco la necessità di rendere produttivo il nostro patrimonio, ma ritengo più importante che sia istruttivo che produttivo. Perciò trovo ingiusto che gli italiani o gli abitanti della città paghino il biglietto nei musei.

Il problema fondamentale è mantenere uno strumento che è indiscutibile per ogni luogo del mondo e dell’Europa: il diritto di prelazione. È il nostro potere reale. Il più grande affare che ha fatto lo Stato è testimoniato dall’architetto e storico dell’arte Francesco Petrucci: il formidabile acquisto di Palazzo Chigi di Ariccia con gli arredi e i dettagli più piccoli per 7 miliardi di lire. Il bene che noi dobbiamo vincolare non è il singolo dipinto ma l’integrità dei luoghi. Due sono gli obiettivi del Ministero, nella parte che compete alle mie deleghe: il vincolo degli edifici e dei loro interni, nella loro dimensione pertinenziale, e la difesa del paesaggio, che è un bene costituzionale, come ha affermato anche il presidente della Regione Lazio Francesco Rocca.

La Direzione Archeologia Belle Arti e Paesaggio dovrebbe impegnarsi a dire no agli interventi di criminali pronti a posizionare pale eoliche ovunque in nome di un’energia rinnovabile che dovrebbe essere il futuro (si veda il caso di Matteo Messina Denaro) e nel rapporto che oggi mi pare si sia utilmente stabilito tra le varie parti. In questa impresa quello che importa è salvare ciò che resta dell’Italia, del paesaggio, delle architetture e degli interni. Il vincolo di polizia stabilito nei fatti deve essere sostituito da un vincolo di conoscenza, per ogni opera che abbia più di 100 anni: una carta d’identità di un bene che si possiede. Si deve sapere dov’è un’opera. Notificarla perché nessuno la veda mi sembra una forma insensata di onanismo istituzionale, senza utilità.

Quindi prima di tutto la conoscenza dell’opera, poi la prelazione. Lo Stato la vuole comprare? La comprerà, come fanno in Francia, quando la vendita, almeno in Europa, sia consentita liberamente. Si tratta di proteggerci forse dall’America, perché è un altro continente. Io voglio un vincolo più potente. Voglio sapere dov’è un’opera. Voglio poterla esporre. Voglio farla passare dalla notifica o dall’anonimato in una casa, a un luogo dove tutti la vedono. È questo che mi sembra che abbia a che fare con il «godimento», come si chiamava nella legge del 1939, non «fruizione» dei beni culturali. Intanto, procederei stabilendo un rapporto di armonia fra privati, collezionisti, mercanti d’arte e gli uffici della nostra Direzione Generale e poi passerei ad una riforma che sostituisca la notifica con una prelazione potenziata dai finanziamenti governativi.

Comprare le opere che si notificano, di cui si blocca l’esportazione, come primo atto, e, in secondo luogo, trasformare il vincolo di polizia in vincolo europeo di conoscenza. Questo deve essere l’obiettivo e soprattutto l’idea che un’opera notificata, dal momento che si ritiene così indispensabile, sia acquistata dallo Stato a un prezzo che è quello stabilito, senza dare valutazioni troppo grandi, è un dato morale fondamentale. Quindi se uno fa una dichiarazione, questa può essere a vantaggio dello Stato. Il piacere di chi si muove in questo mondo è la scoperta: scoprire un’opera che a un’asta è valutata 3.500 euro e magari ne vale 35mila. Quello degli antiquari d’altra parte è un lavoro ed è, per un collezionista che non vende, un compiacimento: «Questo l’ho pagato solo 10, vale 100!». È una infantile forma di felicità per tenere poi quelle opere in una fondazione. Tutto questo non può essere materia di guerra. È una pace che io auspico, almeno nel mondo dei beni culturali, che rappresentano la bellezza rispetto al male, la bellezza rispetto alla guerra.

Lo Stato non è quello che ha la proprietà materiale delle cose. Lo Stato è, in chiunque abbia la coscienza di quello che sta facendo, la coscienza del bene: Rovati che apre un museo, e non tiene le opere per sé, è Stato. Ho stabilito un fondo per il Mart, che presiedo a Rovereto, di 400mila euro all’anno per acquisti. Ho acquistato un Casorati, sfuggito ad Eike Schmidt, che era una componente del Teatrino privato di Riccardo Gualino a Torino; mi sembrava naturale e doveroso farlo. Oggi ci sono musei che sono anche autosufficienti, possono acquistare. Poi c’è la commissione che autorizza l’acquisto di opere, talvolta secondo me sovrastimate, ma è chiaro che questo deve essere il mondo di persone che hanno lo stesso obiettivo: la difesa dello Stato e della civiltà che rappresenta la sua espressione artistica, da parte dei funzionari e da parte di quelli che sono qua con un solo pensiero e un solo obiettivo. Il resto è una perdita di tempo come l’inseguimento di guardie e ladri, la sfida di Diabolik e Ginko.

Questo convegno è stato più utile di quanto non pensassi, per questo ringrazio l’amico Peter Glidewell. Le tante cose dette, la buona fede di tutti quelli che sono intervenuti, la dolente consapevolezza di essere considerati responsabili di quello che non si è fatto (come testimonia l’amico Dario Del Bufalo) deve indurre a istituire un «tavolo». I tavoli non si aprono, i tavoli ci sono e, a quel tavolo, devono essere le funzionarie Stefania Bisaglia e Lia Montereale, attente e precise nel conoscere le regole e gli abusi che ne derivano, attraverso la presenza di un avvocato tenace che difende un grande mecenate come Rovati e dell’abile avvocato Francesco Salamone, una specie di «Eta Beta» convinto di quello di cui sono convinto anche io, e cioè che bastino puntuali circolari che indichino le linee, le visioni, abbandonando l’idea di lasciare tutto all’arbitrio.

Troviamo una soluzione affinché il nostro patrimonio artistico e paesaggistico sia difeso dai veri delinquenti e non da quelli che riteniamo tali solo perché sono apparentemente dall’altra parte del tavolo. Alessandra Di Castro ha quasi gridato: «Noi abbiamo paura!». Per quale errore, per quale colpa se non quella di aver scoperto, trovato opere sconosciute? Per il bene di tutti, a partire da temporanei collezionisti, che comunque conservano e tutelano. Qui non c’è nessuno dall’altra parte, siete tutti dalla stessa parte che è l’Italia, il patrimonio artistico italiano e i vincoli che sono vincoli di coscienza e di conoscenza prima che di polizia.
 

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Anna Somers Cocks, Vittorio Sgarbi, 28 aprile 2023 | © Riproduzione riservata

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