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«Sortie de forêt à Fontainebleau. Soleil couchant» (1850 circa) di Théodore Rousseau, Parigi, Musée du Louvre (particolare)

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«Sortie de forêt à Fontainebleau. Soleil couchant» (1850 circa) di Théodore Rousseau, Parigi, Musée du Louvre (particolare)

Nel Petit Palais un centinaio di paesaggi di Théodore Rousseau

Il precursore dell’Impressionismo fu determinato a fare della natura non più un semplice sfondo scenografico, bensì il principale motivo d’ispirazione

Elisabetta Matteucci

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La direttrice del Petit Palais, Musée des Beaux-Arts de la Ville de Paris, Annick Lemoine cura una monografica dedicata a uno dei protagonisti della Scuola di Fontainebleau. La mostra «Théodore Rousseau. La Voix de la forêt», organizzata con il sostegno del Louvre e del Musée d’Orsay, in corso dal 5 marzo al 7 luglio, intende indagare il percorso dell’artista che alla metà del XIX secolo svolse in Francia un ruolo fondamentale nella creazione di una nuova scuola di pittura di paesaggio, aprendo la strada all’Impressionismo.

A capo del cenacolo di pittori e fotografi che frequentavano il villaggio di Barbizon, Rousseau amava trascorrere molte ore nella vicina foresta di Fontainebleau, determinato a fare della natura non più un semplice sfondo scenografico quanto il principale motivo d’ispirazione. Esservi immerso era per lui il modo migliore per tentare di catturarne il misterioso segreto.

L’attitudine a dipingere en plein air, impiegando pennellate ampie e libere «sur le motif» generate dalla forza evocativa di quella bellezza primordiale attraversata dai suggestivi cambiamenti di luce e atmosfera, generò un’enorme quantità di schizzi. Secondo una pratica allora diffusa, il materiale veniva rielaborato in atelier dando origine a composizioni dal forte impatto visivo.

Tuttavia, come illustreranno le quasi cento opere riunite provenienti da collezioni private, dalla Collezione Mesdag dell’Aia, dalla Kunsthalle di Amburgo, dalla National Gallery e dal Victoria and Albert di Londra, dal Musée des Beaux-arts di Reims e dalla Carlsberg Glyptotek di Copenaghen, i confini tra pittura e disegno, abbozzo e soggetto definitivo, tendevano spesso a confondersi. Da eterno sperimentatore, dotato di un talento tecnico senza pari, Rousseau ritoccava e rimaneggiava le tele con estrema audacia per riuscire a tradurre la vita, la luce e il respiro ritmico di quello straordinario eppur fragile ecosistema.

L’utilizzo di questa tecnica, a prima vista quasi eccessiva, non era disgiunto da un trasporto interiore grazie al quale la pittura di paesaggio si caricò di un significato inedito. Non a caso lo stesso Baudelaire intravide in lui un «naturalista costantemente teso verso l’ideale».

Il percorso espositivo prende avvio dalle opere giovanili, con i numerosi studi di tronchi, del sottobosco, di foglie, rocce e paludi, frutto del viaggio di apprendistato in Francia anziché in Italia. Una scelta dettata da un carattere anticonformista e ribelle che lo aveva indotto a rinunciare al consueto itinerario previsto dalla formazione accademica e, in seguito al rifiuto delle opere inviate al Salon, ad abbandonare Parigi. Seguono le opere realizzate a partire dal 1847, anno del definitivo trasferimento nella radura e dell’assunzione al ruolo di capofila del gruppo di pittori e fotografi riunitisi attorno a lui come Narcisse Díaz de la Peña, Charles Jacques, Jean-François Millet, Eugène Cuvelier, Charles Bodmer e Gustave Le Gray.

Accanto ai quasi spirituali dipinti realizzati nella foresta di Fontainebleau, vi sono i cosiddetti «crimini», vale a dire gli abbattimenti di alberi, i tentativi di disboscamento, denunciati ed equiparati da Rousseau all’eccidio di creature innocenti, in relazione all’efferato episodio biblico. Il sentimento nutrito nei confronti del paesaggio, dettato dalla consapevolezza della sua fragilità era accompagnato da un concreto desiderio di preservarne l’incolumità, riflesso di uno spirito ecologista davvero precoce.
 

Elisabetta Matteucci, 01 marzo 2024 | © Riproduzione riservata

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