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Il Castello Aragonese di Baia (che ora ospita le collezioni del Museo Archeologico dei Campi Flegrei)

@ Petrosino

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Il Castello Aragonese di Baia (che ora ospita le collezioni del Museo Archeologico dei Campi Flegrei)

@ Petrosino

Nel Parco Archeologico dei Campi Flegrei, tra essenza e apparenza

Dal Lago d’Averno alla Piscina Mirabilis, dai cosiddetti Antro della Sibilla e Tempio di Serapide al Parco sommerso di Baia, un «paesaggio della mente» che ha provocato lo stupore e acceso la fantasia dei primi turisti del Grand Tour

Fabio Pagano

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Incamminatevi lungo la strada che parte da Lucrino e arriva al Lago d’Averno. Costeggiate le sponde del lago sopra cui gli uccelli non osavano volare e che gli antichi immaginavano come una delle porte dell’Ade. Andate in direzione delle verdi pendici del Monte Nuovo, che nascondono il più giovane vulcano d’Europa, e vi troverete davanti il Tempio di Apollo. Avrete di fronte a voi una delle più maestose costruzioni dell’architettura romana, un edificio circolare in origine coronato da una grandiosa cupola seconda per dimensioni solo a quella del Pantheon. Ma di un tempio nessuna traccia. Perché allora chiamiamo Tempio di Apollo quello che probabilmente era un ambiente di un complesso termale? Perché nei Campi Flegrei l’apparenza crea un velo di fronte alla sostanza? Perché, a ben vedere, i Campi Flegrei sono un paesaggio della mente. Luoghi dove lo stupore dei primi turisti del Grand Tour ha trasformato «semplici» edifici imponenti in templi, come avviene per il tempio di Diana e quello di Venere a Baia, consegnandoci nomi certamente errati, ma profondamente carichi di immutato fascino. 

La mente, dunque, nei Campi Flegrei crea e restituisce i suoi paesaggi e, spesso, li sovrappone a una memoria materiale di straordinaria importanza. Risalendo lungo la costa che da Baia conduce verso Miseno, dopo aver superato l’imponente mole dell’austero Castello Aragonese (che ora ospita le collezioni del Museo Archeologico dei Campi Flegrei), una sosta obbligatoria è di fronte alla Tomba di Agrippina. Un piccolo edificio semicircolare con gradinate parzialmente conservate si presenta davanti ai nostri occhi. Un antico piccolo teatro, poi trasformato in ninfeo monumentale, che impreziosiva una delle tante ville costiere, appannaggio delle élite romane, fiorite in questo tratto di litorale. Ma come tenere a freno la nostra mente di fronte a quel nome scritto sulla targa? Il paesaggio che si modella davanti ai nostri occhi è quello dell’ambientazione della storia di Agrippina, madre dell’imperatore Nerone, assassinata dai sicari del figlio proprio in questo lembo di mare. E un’altra volta l’essenza di un edificio si trasfigura nel fascino immateriale dell’apparenza... 

Se ci soffermiamo ancora in zona e percorriamo le strette strade del centro storico di Bacoli non possiamo non dedicare una visita alla Piscina Mirabilis, la cattedrale dell’acqua. Entrando all’interno del monumento, da poco riaperto al pubblico attraverso un progetto di partenariato pubblico-privato, la sensazione è davvero quella di essere in un luogo mirabile. Un’imponente cisterna in grado di contenere poco meno di 13mila metri cubi di acqua, che arrivava dall’acquedotto del Serino, costruita al tempo di Augusto per servire e rifornire la flotta della marina militare romana che l’imperatore aveva voluto insediare proprio nel sottostante Lago di Miseno. Una volta entrati ci troviamo in una singolare posizione, là dove in antico era l’acqua, inondati da un flusso di sensazioni che provengono dalla maestosità del costruito, dalla luce che filtra dai lucernai e dalle variazioni di colore degli intonaci, delle incrostazioni di calcare e dalle piante di capelvenere che pendono dal soffitto. Non siamo soltanto all’interno di una delle più grandiose manifestazioni dell’architettura romana, siamo agli albori del turismo culturale in un luogo visitato da generazioni di uomini in cerca di stupore e bellezza (tra i quali Palladio, Mozart e Winckelmann) e affascinati dal più bel nome possibile assegnato al monumento dal Boccaccio. Qui nulla, dunque, è solo quello che appare. 

L’Antro della Sibilla. @ V. Infante

Per comprenderlo appieno bisogna recarsi nel Parco Archeologico di Cuma e avvicinarsi a una galleria scavata nel tufo su cui si erge l’acropoli della più antica colonia greca del Mediterraneo occidentale. Se dovessimo affidarci con positiva fiducia agli indicatori in possesso degli archeologi dovremo interpretarla come ordinaria cava di materiale (in età sannitica), in seguito usata come galleria di collegamento per scopi militari (in età romana). Ma per fortuna l’interpretazione di un luogo non si muove solo sulla certezza degli indicatori materiali ed è quindi più stimolante per noi seguire la strada segnata da Amedeo Maiuri, che la scavò poco meno di cento anni fa leggendo e raccontando quella galleria come l’«Antro della Sibilla». Le sue certezze si fondavano sulla lettura del libro VI dell’Eneide, dove Virgilio narra la tappa cumana del viaggio di Enea e il suo incontro con la sacerdotessa di Apollo all’interno di un antro immane, dal quale si aprivano cento porte e nel quale si celebravano i riti legati ai responsi. Ancora oggi visitando il Parco Archeologico di Cuma si trovano grandi iscrizioni in marmo dove l’archeologo campano fece incidere passi del poema di Virgilio per dare forma e sostanza alla memoria immateriale del luogo. 

Nel nostro viaggio all’interno del Parco Archeologico dei Campi Flegrei torniamo verso Pozzuoli e dirigiamoci nei pressi del porto dove ci accolgono le tre monumentali colonne del Tempio di Serapide. Il complesso venne indagato nel 1750 e costituisce l’esordio ufficiale dell’archeologia flegrea. Le colonne sono sempre state al loro posto, visibili all’interno di una vigna nei pressi del centro storico di Pozzuoli, ma nel corso del tempo hanno assunto significati sempre nuovi e differenti. Dalla interpretazione iniziale che vedeva il complesso come un luogo di culto legato al dio Serapide (alla luce del rinvenimento di una statua raffigurante il dio ora conservata al Museo Archeologico Nazionale di Napoli), si è passati a leggere il monumento come il «Macellum» dell’antica Puteoli, cuore pulsante dell’economia commerciale del centro romano, crocevia di genti, prodotti, lingue e culture. Nonostante tale interpretazione non sia mai stata messa in discussione, il nome non ha mai fatto del tutto breccia nel cuore dei puteolani di oggi, che si tengono stretta l’antica denominazione, al massimo aggiungendovi un cautelativo «cosiddetto». Le stesse colonne sono state osservate da occhi meno interessati alla loro estetica ma incuriositi da quegli strani fori che si notano sul loro fusto. Partendo da queste osservazioni, un giovane geologo scozzese di nome Charles Lyell intuì che ci fu un tempo in cui quelle colonne furono parzialmente sommerse dal mare facilitando il lavoro di piccoli molluschi marini che avevano «sgranocchiato» la pietra. Con la pubblicazione dei suoi studi consegnò alle tre colonne del Macellum il ruolo di «tempio della geologia» e ai Campi Flegrei la teorizzazione del fenomeno del bradisismo. 

Ma se anche la terra qui non concede certezze e si concede di mutare continuamente forma, allora come può la memoria essere ancorata a solide basi? La sublimazione di questo processo lo troviamo nel più singolare dei luoghi: il Parco sommerso di Baia, uno straordinario patrimonio archeologico, recentemente riconosciuto dall’Unesco come buona pratica mondiale per la conservazione del patrimonio culturale sommerso. La vitalità commerciale del porto di Pozzuoli, con i suoi moli e magazzini, e la dolce vita baiana, con le sue terme e le sue ville, riposano oggi a pochi metri sotto il livello del mare. 

La memoria si fa liquida, i confini diventano labili e l’esperienza di avvicinarsi a essa diventa quanto mai memorabile. 

Il Parco sommerso di Baia. @ P. Vassallo

Fabio Pagano, 25 luglio 2025 | © Riproduzione riservata

Nel Parco Archeologico dei Campi Flegrei, tra essenza e apparenza | Fabio Pagano

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