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«Noluvo Swelindawo» (2018), di Gabrielle Goliath. Cortesia dell’artista e Galleria Raffaella Cortese, Milano - Albisola

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«Noluvo Swelindawo» (2018), di Gabrielle Goliath. Cortesia dell’artista e Galleria Raffaella Cortese, Milano - Albisola

L’elegia di Gabrielle Goliath da Raffaella Cortese

Nella galleria milanese la violenza sui corpi neri, bruni, femminili e queer, viene evocata dall’artista sudafricana attaverso una ritualità collettiva e luttuosa

Francesca Interlenghi

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A partire dal 5 aprile Raffaella Cortese presenta «Elegy», prima personale in galleria dedicata a Gabrielle Goliath (Sud Africa, 1983), artista multimediale la cui indagine verte prevalentemente sulle questioni di razza, genere e violenza sessuale. Il titolo della mostra riprende quello di una performance commemorativa a lungo termine iniziata dall’artista nel 2015 e allestita in vari luoghi del mondo, dal Sud Africa, al Brasile, gli Stati Uniti, la Germania, i Paesi Bassi e la Francia, con gruppi vocali multirazziali e multilingue. Il lavoro chiama a raccolta performer donne, che con il loro flusso di voci mettono in atto un rituale di lutto, con un unico tono esasperante della durata di un’ora.

Goliath raccoglie per la prima volta in questo progetto espositivo, visibile sino al 30 giugno, tutte le dieci performance filmate di «Elegy», sviluppando una struttura installativa ad hoc che si dispiega nei tre spazi della galleria. L’opera crea un ambiente relazionale dai molteplici risvolti, che mette lo spettatore davanti all’incommensurabilità della sofferenza altrui, all’alterità violata del femminile o delle persone Lgbtiq+, ma anche all’evidenza di un quadro normativo che applica criteri di valutazione differenziale, rendendo i corpi delle donne nere disponibili alla violenza e alla morte.

«Le storie di schiavitù, espropriazione e apartheid in Sud Africa hanno generato una profonda ferita sociale, che si manifesta come una realtà quotidiana di femminicidi e stupri, così come di queerfobia, transfobia e afrofobia» spiega l’artista. «In quanto donna sudafricana di colore, la mia pratica si colloca in gran parte all’interno di questa lunga crisi e nel quadro della normatività della violenza patriarcale, rifiutandone le condizioni e affermando invece pratiche di riparazione del femminismo nero».

Ragionare sulla complessa questione della diversità non vuol dire per Goliath sgretolarne l’esoscheletro in nome di una presunta universalità o reciprocità, ma significa abbracciare le rigidità, le difficoltà e il rischio che l’accettazione delle differenze comporta, superando quella che la studiosa britannico-australiana Sara Ahmed definisce «l’impossibilità di una comunione di intenti». Tematiche affini alla concezione estensiva del termine «straniero», fil rouge della 60ma Biennale d’Arte di Venezia intitolata «Stranieri Ovunque», che non a caso hanno indotto il curatore Adriano Pedrosa ad includerla tra gli artisti della mostra allestita al Padiglione Centrale.

«Il compito politico di Elegy si estende oltre l’appello alla diversità, che troppo facilmente viene attuato con una politica di inclusione basata sul tacito riciclo di un modello di privilegio bianco e patriarcale. Perché, quando affrontiamo questo tema, il vero quesito che dobbiamo porci è: inclusione in cosa? In quale infrastruttura sociale, in quale modello di soggettività e validità politica?».

La violenza sui corpi neri, bruni, femminili e queer, traumatizzati dalla cultura dello stupro in Sudafrica, viene evocata dall’artista in una ritualità collettiva e luttuosa costruita intorno all’assenza più che alla presenza. Dando voce al dolore che si annida tra le pieghe dell’invisibile più che rendendo esplicito il visibile. Trasformando in tappeto drammaturgico il respiro strozzato, le parole appena sussurrate, le grida trattenute.

«Il mio lavoro non riguarda la violenza. È piuttosto un lavoro di vita, vale a dire un impegno costante a coltivare le condizioni in cui prosperare, incoraggiando pratiche di riconoscimento e cura, creatività e immaginazione attraverso le quali gli individui e le comunità di neri, donne, trans e queer possano sopravvivere a un ordine normativo a loro antagonista. “Elegy” è un lavoro di riparazione, non un lavoro sulla violenza e sulla morte. Ci chiama allo sforzo politico collettivo di affermare il valore e la pienezza delle vite marginalizzate, quelle usa e getta. Le vite, per dirla con Judith Butler, che politicamente non sono ritenute degne di lutto».

«Noluvo Swelindawo» (2018), di Gabrielle Goliath. Cortesia dell’artista e Galleria Raffaella Cortese, Milano - Albisola

Francesca Interlenghi, 02 aprile 2024 | © Riproduzione riservata

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