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L’avidità veneziana ucciderà Venezia

Anna Somers Cocks

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La città, avverte Settis, potrebbe davvero morire. Le ragioni profonde (e le possibili misure per evitarlo)

Se Venezia muore di Salvatore Settis sviluppa alcuni scritti comparsi su giornali italiani, ma anche francesi, tedeschi e russi; Settis desidera davvero che il mondo sappia che Venezia potrebbe morire. Venezia, sottolinea ripetutamente, è anche un paradigma per altre città di tutto il mondo che sperimentano tensioni tra la loro natura storica e le esigenze moderne, nel delicato rapporto tra città costruita e ambiente nella corsa al suo sfruttamento per profitti a breve termine.

La forza di questo libro consiste nel dimostrare come le cattive correnti di pensiero abbiano portato a cattive politiche, o all’assenza di politiche. Smentisce il compiacente mantra «La bellezza salverà il mondo»; «Non salverà nulla né nessuno se noi non sapremo salvare la bellezza», rimarca e cita le sobrie parole dell’art. 9 della Costituzione italiana (1947), che sono i principi con cui confronta il caos, l’incuria, la corruzione, l’ipocrisia e la magniloquenza che tanti danni hanno arrecato nell’ultimo mezzo secolo: «La Repubblica promuove la cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione». «Chi combatte per Venezia con l’arma della Costituzione combatte per l’Italia», dice.  Settis giustamente identifica una delle ragioni del declino nel liberalismo economico, che ha portato all’apertura  alle imprese private della sfera culturale. Nota come questo abbia incoraggiato una maldestra svendita a fini di profitto (come con i maxicartelloni pubblicitari che deturpano Venezia, suggerirei), ma, forse, avrebbe potuto aggiungere che se ciò è accaduto è perché le ragioni della simbiosi tra pubblico e privato esistenti nel Regno Unito e negli Stati Uniti non sono state correttamente comprese dai Governi italiani che si sono succeduti.

Nel mondo anglosassone la collaborazione è stata vantaggiosa perché tutte le parti hanno ben presente che cosa dovrebbero essere la «missione e l’obiettivo principale» di un progetto di restauro, un museo, uno spettacolo teatrale ecc. Nessun responsabile di un luogo tanto emblematico quanto piazza San Marco si sarebbe mai sognato di permettere la comparsa di tali pubblicità e nessuno sponsor si sarebbe sognato di mettercele, perché la finalità ultima della sponsorizzazione consiste nell’investire nel superiore stato dell’arte, non nel banalizzarlo al livello della vita quotidiana.  Settis è anche consapevole di come alla miscela velenosa abbiano contribuito i dogmi socioeconomici; se la prende con teorie alla moda, come l’idea di distruzione creativa dell’economista Joseph Schumpeter. Venezia, dice Settis, deve rimanere com’è, ma imparare a sviluppare «una poesia del riuso» che non si rivolga soltanto al turismo di massa. Io non temo, come sembra fare Settis, che le molte imitazioni di Venezia in giro per il mondo accelereranno la perdita d’identità della città inquinandone l’immagine, ma concordo pienamente con lui che l’attuale mancanza di gestione dei turisti e l’inanità delle autorità contro la ristretta visione degli interessi economici a breve termine distruggeranno la città in quanto comunità viva e complessa.

Settis ha anche colto l’ipocrisia di quanti si sono convinti che Venezia non sia un luogo «reale»: «Così i problemi (veri) di Venezia diventano la scusa per aggravarli ancora, secondo le pratiche di un’economia di rapina». È giustamente, un libro penoso da leggere. È un lamento per la distruzione quotidiana della grande bellezza, «la fatata città del cuore», come Byron definì Venezia, ed è rabbia e disappunto per ciò che Settis vede come fallimento morale dell’Italia di oggi, una stupidità e volgarità che rendono questo Paese indegno del suo grande patrimonio culturale.

Nel suo prossimo libro ci piacerebbe vedere Settis fare nomi e descrivere la vergognosa trahison des clercs di due accademici divenuti sindaci di Venezia, che di fatto hanno accelerato il declino della città quando di certo avrebbero dovuto aver imparato la lezione. Uno è Massimo Cacciari, che nel suo primo mandato (1993-2000) ha permesso di riconvertire case private in bed and breakfast, cosa che in un batter d’occhio ha fatto schizzare i prezzi degli immobili, spinto i veneziani ad approfittarne e a lasciare la città, uccidendo la vita di quartiere e sostituendola col turismo.

L’altro è Paolo Costa, ex rettore dell’Università di Ca’ Foscari e ora a capo dell’Autorità Portuale, che va fiero di avere portato le grandi navi da crociera dentro Venezia e che ora sta persino proponendo una rotta alternativa perché possano raggiungere il porto, con il conseguente scavo di un canale largo e profondo attraverso la laguna che la danneggerà ulteriormente sul piano ecologico. Settis potrebbe anche approfondire di più la struttura amministrativa di Venezia, divisa tra una mezza dozzina di enti che non riuscirebbero a gestire strategicamente la città e la sua laguna nemmeno se si amassero come fratelli (e così non è). Al lamento devono seguire i fatti, se davvero non vogliamo che Venezia muoia, e l’unica è analizzare le attuali dinamiche locali di potere, rimodellandole drasticamente in modo che possano produrre un piano a lungo termine per la città e quindi applicarlo. Perché le soluzioni al problema di Venezia siano di natura tecnica, non un miracoloso miglioramento della moralità degli italiani.


Se Venezia muore
di Salvatore Settis
164 pp.
Einaudi, Torino 2014
€ 11,00

Anna Somers Cocks, 06 gennaio 2015 | © Riproduzione riservata

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