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Cartolina da Versailles (13 settembre 1911) indirizzata da Franz Kafka alla sorella Ottla. MS. Kafka 49, fol. 12v Di proprietà congiunta della Bodleian Library e del Deutsches Literaturarchiv Marbach

© The Bodleian Library, University of Oxford

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Cartolina da Versailles (13 settembre 1911) indirizzata da Franz Kafka alla sorella Ottla. MS. Kafka 49, fol. 12v Di proprietà congiunta della Bodleian Library e del Deutsches Literaturarchiv Marbach

© The Bodleian Library, University of Oxford

L’invenzione della solitudine

A che cosa servono le esposizioni dedicate alla letteratura? Quella intitolata «Franz Kafka», tenutasi presso la Morgan Library di New York fino ad aprile, offre qualche indizio in proposito

Martin Bethenod

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Se le case-museo degli scrittori assolvono a una funzione chiara, quella di «fabbricare fantasmi», secondo la suggestiva espressione di Tanguy Viel (in Vivarium, Éditions de Minuit, Parigi 2024), le esposizioni letterarie propriamente dette sono oggetti dalla natura più indefinibile, dalle intenzioni composite e talvolta ambigue: divulgazione storica, indagine critica, omaggio al grande personaggio o ancora riflessione sul soggetto dell’opera più che sull’opera stessa. I testi originali vi sono offerti allo sguardo più che alla lettura (che cosa si può effettivamente leggere di un manoscritto posto dietro una teca?), mentre l’atto della lettura viene demandato a un apparato esegetico spesso invadente: pannelli esplicativi su fondi colorati, citazioni a mo’ di aforismi ornamentali.

Gli oggetti esposti assumono lo statuto ambiguo delle reliquie: venerate, pur nella consapevolezza che la loro aura è in parte finzionale (le scarpe della contessa Greffulhe, esposte in una mostra su Marcel Proust, sono e insieme non sono quelle della duchessa di Guermantes). L’immagine svolge ora la funzione della presenza, mostrando l’autenticità, l’autografo, che legittima la forma stessa dell’esposizione, ora quella dell’evocazione, soprattutto tramite l’impiego ricorrente di estratti cinematografici. Con il paradossale effetto che, per rappresentare un libro che non si può leggere davvero in una sala espositiva, si proietta un brano di film che nemmeno può essere guardato come si deve: tagliato, in loop, in piedi, alla luce del giorno e nel brusio costante.

Ciò non toglie che vi siano state mostre straordinarie dedicate a scrittori, come quelle su Roland Barthes (2002-2003) o Samuel Beckett (2007), ideate al Centre Pompidou di Parigi da Marianne Alphant, che con grande lucidità definiva tale operazione una «biografia intellettuale». O ancora, il ciclo di iniziative parigine attorno a Marcel Proust tra il 2021 e il 2023, notevoli per la coerenza dei rispettivi intenti - contestuale al Musée Carnavalet («Marcel Proust, un roman parisien», 16 dicembre 2021-10 aprile 2022), biografico al Musée d’Art d’Histoire du judaïsme («Marcel Proust. Du côté de la mère”, 14 aprile-28 agosto 2022), genetico alla Bibliothèque national de France («Marcel Proust, la fabrique de l’œuvre», 11 ottobre 2022-22 gennaio 2023), per l’equilibrio tra feticci, documenti e opere, e per l’elevata qualità di queste ultime. Ricordo in particolare un elemento della mostra al Musée Carnavalet: si osservava una mappa della «Parigi reale» abitata dallo scrittore, e, qualche sala più avanti, una mappa della «Parigi della Recherche». Nell’evidenziare il sottile scarto tra la Parigi dell’autore e quella del narratore, come tra due selciati disallineati, nel far percepire quella vibrazione tra reale e letteratura, si toccava forse il nucleo stesso di ciò che una mostra letteraria può offrire.

 

La costruzione del mito

L’esposizione che dal 22 novembre 2024 al 15 aprile 2025 la Morgan Library ha dedicato a Franz Kafka (presentando per la prima volta a New York i manoscritti provenienti dalla Bodleian Library della Oxford University), ha proposto una rivelazione di analoga natura. Il percorso, che alternava feticci assoluti a memorie affettuose, era purtroppo appesantito da una scenografia vistosa, troppo discorsiva e letterale fino al kitsch (l’idea di esporre il manoscritto de La metamorfosi su uno sfondo a motivo d’ali d’insetto…). Tutto appariva piatto, sino all’ultima parete dell’esposizione: lì, una piccola vetrina presentava l’edizione originale del libro di Marthe Robert Seul, comme Franz Kafka (Calmann-Lévy, 1969; la prima edizione italiana, Solo come Kafka, è uscita per Editori Riuniti nel 1982, Ndr), testo di riferimento degli studi kafkiani e atto fondativo del mito dello scrittore solitario per eccellenza, la cui copertina riproduce il più celebre ritratto dell’autore, sguardo intenso e bombetta leggermente inclinata. Nella stessa vetrina si trovava anche la fotografia, risalente al 1908 circa, da cui quell’icona fu ritagliata. Franz Kafka non vi compare solo, bensì ritratto in compagnia allegra con una graziosa cameriera di cabaret, Julianne Szokoll, e, tra loro, un cane che accarezza (sarà forse lui il narratore di uno dei suoi due soli testi scritti in prima persona, Indagine di un cane? Scritto nel 1922 e pubblicato postumo nel 1931). Il dialogo fra queste due immagini svela il processo stesso della mitopoiesi letteraria, l’«invenzione della solitudine» (espressione ripresa dall’omonimo libro di Paul Auster del 1982, pubblicato in edizione italiana da Einaudi). Ed è un’epifania luminosa.

Martin Bethenod, 19 giugno 2025 | © Riproduzione riservata

L’invenzione della solitudine | Martin Bethenod

L’invenzione della solitudine | Martin Bethenod