«Alberto Burri, Città di Castello, 1976». Foto Aurelio Amendola

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«Alberto Burri, Città di Castello, 1976». Foto Aurelio Amendola

L’incantesimo del fuoco di Fondazione Cini

Al centro della mostra organizzata da Tornabuoni Art a Venzia, Kounellis, Klein, Burri, Parmiggiani e gli altri impavidi e industriosi prometei

Disegnare il fuoco è una figura dell’impossibile, proprio come disegnare l’acqua. Giusto allora che una mostra come «On Fire» si tenga a Venezia (la città che già d’Annunzio, del resto, siglava in nome del Fuoco). Non c’è artista veneziano, o che da Venezia sia passato, che non si sia misurato con l’adynaton di fissare in figura il perpetuum mobile sul quale da milleseicento anni la Serenissima, con audacia non inferiore alla fierezza, poggia le sue fondamenta. Leonardo, che dai suoi moti era ossessionato, ha scritto una volta che «l’acqua è il vetturale della natura» perché incessantemente «transmuta il terreno», ed è dunque l’elemento che più si avvicina alla luce stessa.

Anche in questo, simile al fuoco: che alla luce è consustanziale, certo, e la cui valenza metamorfica è ancora più potente. Esposta al fuoco la materia cambia di stato: si transmuta in gas disperso nell’aria, o si deposita in forma di cenere. E proprio la potenza metamorfica del Fuoco è al centro della bellissima mostra organizzata da Tornabuoni Art. Scrive il curatore Bruno Corà d’essersi ispirato al nume tutelare di diversi dei sei sceltissimi artisti, Emilio Villa: il quale in Arte dell’uomo primordiale, nei primi anni Sessanta, scriveva del «supporto distruzione-creazione» rappresentato dalla «materia fuoco» e sempre sotteso al gesto creativo di homo.

Una riflessione antropologica è evidente in Jannis Kounellis, e i suoi lavori col fuoco (piuttosto diversi da quelli degli altri artisti in esposizione) la mostrano in piena luce: spesso tableaux vivants nei quali col fuoco si rapportano esseri umani in posture di più o meno dissacrata ritualità (per esempio, performance musicali). Come la foto celebre del ’73, che ritrae lo stesso artista col manico del bruciatore tenuto coi denti e la fiamma minacciosamente vicina al volto.

Del resto maneggiare il fuoco evoca sempre, in qualche modo, l’elemento dionisiaco che Nietzsche associava al rituale chiamato musica. Il «Mangiafuoco» di Pier Paolo Calzolari (1979, ma spettacolarmente re-enacted in mostra) porta in scena chi soffia le fiamme sulla tela: la quale, così, si modifica a ogni performance.

Non è un caso che, in mostra come nel bel catalogo edito da Forma, abbiano un impatto commisurabile a quello delle opere le foto che mostrano al lavoro questi impavidi e industriosi prometei. Alberto Burri riteneva fosse la sua foto più bella quella di Aurelio Amendola, del ’76, in cui si vede l’artista dietro la plastica trasparente che sta bruciando: in modo che la fiamma, coprendogli il volto, pare divampargli dal petto.

Il più spettacolare è però Yves Klein, al quale spetta forse la primazia anche cronologica in quest’uso rituale di quello che davvero, nel suo esoterico caso, si può wagnerianamente chiamare l’incantesimo del fuoco. Ad accoglierci in mostra è infatti un filmato ineffabile nel quale l’artista maneggia un ingombrante bruciatore per «preparare» la tela sulla quale in seguito imprimono i loro corpi le modelle, così realizzando delle spettrali quanto eleganti «Antropometrie» a encausto, diciamo, a loro volta in mostra: le rarissime «Peintures de feu» del ’62. Nel video, non si capisce se più preoccupato o divertito, alle spalle del demiurgo impassibile occhieggia un pompiere pronto a intervenire.

Al principio c’è Klein perché la presenza del fuoco, in tutto questo repertorio (con l’eccezione, s’è detto, di Kounellis), è sempre in negativo. Se è impossibile riprodurre la sua forma nell’istante in cui brucia, quello che può fare l’artista è raccogliere «ciò che resta del fuoco», per dirla con Jacques Derrida. Nei lavori del gemello diverso di Klein, Arman, sono presenti i resti (di squisitezza, talora, persino calligrafica) di oggetti che le fiamme hanno come cristallizzato (fra i quali ricorrono spesso, di nuovo, gli strumenti musicali): avvolta da una brina delicatissima di screziate enfiagioni «La Fauteuil d’Ulysse», del ’65, risulta più elegante di qualsiasi poltrona Impero lasciata volgarmente intatta dalle fiamme. (Il cortocircuito «barocco» tra fuoco e ghiaccio è spesso visitato da Calzolari, il più «alchemico» di questi artisti.)

Il percorso non può che concludersi con Claudio Parmiggiani. E non solo perché anche nei suoi ultimi lavori tornano gli oggetti-emblema che il suo bruciatore sa strinare, con maggiore o minore delicatezza, ormai con la precisione d’un bisturi. I due «Senza titolo» replicano immagini che perseguitano la sua memoria ormai da decenni: i libri semicarbonizzati sotto un’imponente campana, in ricordo del rogo di Giordano Bruno, in Campo de’ Fiori, e quegli altri la cui impronta si fissa al muro in «delocazione».

La biblioteca di Parmiggiani, come quella spettacolare esposta al MaXXI, due anni fa, col titolo dantesco «Solo la terra oscura», è una biblioteca fantasma: traccia incandescente di qualcosa di rimosso, estinto, preterito, ma vivo nella memoria. Proprio lui, allusivamente, è l’unico artista che, in mostra o sul catalogo, non ci sia concesso spiare al lavoro.

Andrea Cortellessa, 08 luglio 2022 | © Riproduzione riservata

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