Image

Verifica le date inserite: la data di inizio deve precedere quella di fine

Image
Image

L’attimo della morte

Il trecentesco Crocifisso ligneo di San Pietro ha ritrovato la sua straordinaria anatomia

Francesca Romana Morelli

Leggi i suoi articoli

È terminato il restauro del monumentale Cristo Crocifisso in legno policromo databile alla prima metà del Trecento, il più antico conservato in San Pietro e ora collocato nella Cappella del Santissimo Sacramento. In questa scultura a tutto tondo la forza plastica e la conoscenza del classico sono assimilate e trasfigurate da una straordinaria capacità di bloccare quell’attimo di massima tensione del Salvatore che scivola nella morte: la testa reclinata sulla spalla destra, il volto con la bocca appena aperta ma contratta, le pupille ormai prive di luce e il torace che si espande per esalare l’ultimo respiro. In origine era nella Basilica paleocristiana sopra l’altare dei Santi Simone e Giuda, uno dei «sette altari privilegiati» con annesse particolari indulgenze. Dal 1632 al 1749 rimase nella cappella di San Pietro affrescata da Lanfranco da dove sarà spodestato dalla Pietà michelangiolesca. Il restauro è stato condotto dalla Fabbrica di San Pietro e dal Capitolo Vaticano grazie all’impegno economico dell’Ordine dei Cavalieri di Colombo che da trent’anni sostengono restauri in San Pietro.

Diretto dall’archeologo Pietro Zander, che si è occupato dei restauri nella necropoli sottostante il complesso basilicale, è stato eseguito da Lorenza D’Alessandro e Giorgio Capriotti, già autori del restauro dei dipinti quattrocenteschi della «Madonna del Soccorso» e della «Madonna della Colonna», coadiuvati dalla loro équipe, mentre Mallio Falcioni ha realizzato la campagna diagnostica in fluorescenza Uv. La scultura ha dimensioni maggiori del reale: la sua altezza è di 2,15 m, l’apertura delle braccia è di 1,96. Secolare e ben stagionato era il tronco di noce da cui è stata ricavata ogni parte dell’opera. La testa è fissata al corpo con pioli di corniolo, le braccia attraverso un abile sistema di incastri. Nel corso dei secoli la scultura era stata alterata sia nella modellazione, con rinforzi di gesso e stoffa, sia nella cromia del corpo, sul quale sono stati rinvenuti nove strati di ridipintura marrone scuro che l’avevano reso simile a una scultura bronzea traslucida. L’ultimo restauro documentato risale al 1750, quando furono rifatte le mani ammalorate, creando un guscio di stoffa e stucco per contenere il legno decoeso dai tarli, guscio poi dipinto con scuri colori a olio. L’antica croce fu sostituita da una più piccola per necessità di spazio. 

Per il restauro avviato a luglio del 2015 si è deciso di attrezzare un laboratorio nella Sala del Capitolo adiacente alla Basilica. «La «pelle» originale della scultura si era salvata al novanta per cento: «Questo fatto, che raramente si riscontra in manufatti lignei così antichi, ci ha permesso di procedere a un restauro estetico finalizzato a un riequilibrio generale della superficie, intervenendo sulle abrasioni senza adottare in alcun modo scelte reintegrative di tipo pittorico che entrassero in competizione con la policromia originale. L’opera doveva “comunicare” la sua storia, spiega Lorenza D’Alessandro. Abbiamo individuato, strato per strato, mezzi e modalità di pulitura differenti, alternando sistemi di natura chimica e fisica al laser. Alla fine siamo riusciti a recuperare la policromia originale, ottenuta attraverso complesse stesure pittoriche con legante a tempera che dispiega sapienti effetti di brunitura, velature, dorature a missione». 

In ultimo è stata progettata una nuova croce riproducendo la forma di quella medievale documentata in una stampa e in un disegno seicenteschi. Ora ci si interroga su chi possa essere l’artista, capace di esprimere un linguaggio così moderno: «Nella “Vita” di Pietro Cavallini (1240-1330) Giorgio Vasari, che vide senz’altro la scultura in San Pietro, cita alcune opere da lui eseguite per l’antica Basilica, affini al Crocifisso ligneo di San Paolo fuori le mura che mostra aspetti stilistici vicini al nostro, spiega Zander. Si tratta comunque di un artista magistrale e all’epoca rinomato, il cui nome finora non è emerso dalla documentazione reperita presso gli archivi petrini. Osservando la scultura, colpisce la conoscenza dell’anatomia, tanto da usare due rossi per il sangue vivo e per quello coagulato o definire nel dettaglio la spina dorsale, le costole, i tendini, le vene. Il linguaggio espressivo rivela uno spiccato interesse per l’arte classica, all’epoca studiata e apprezzata anche in ambiente romano».
 

Francesca Romana Morelli, 12 gennaio 2017 | © Riproduzione riservata

Altri articoli dell'autore

Una sessantina di opere di 51 artisti (da Parmigianino a Schiele, da Boetti a Kentridge), entrate nella collezione dell’istituto romano grazie a tre milioni finanziati dallo Stato, sono ora visibili a Palazzo Poli

Un’antologica nel Casino dei Principi a Villa Torlonia e al Mlac di una delle artiste più moderne e complesse del Novecento

L’allestimento da Tornabuoni è una continua scoperta all’interno dell’emisfero artistico e umano dell’artista torinese

Dopo cinque anni il direttore saluta il Macro di Roma con una collettiva di oltre trenta artisti che intende «restituire uno sguardo dinamico al visitatore»

L’attimo della morte | Francesca Romana Morelli

L’attimo della morte | Francesca Romana Morelli