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Redazione GDA
Leggi i suoi articoliNell’aprile del 1528 usciva Il libro del Cortegiano di Baldassar Castiglione. Al volume dell’amico di Raffaello, e alla sua epoca turbolenta, il critico letterario e filologo Carlo Ossola (Torino, 1946), che ha partecipato a un videomessaggio del Comune di Urbino sul pittore urbinate nel 500mo anniversario dalla morte, ha dedicato il volume Dal «Cortegiano» all’«Uomo di mondo». Storia di un libro e di un modello sociale» (Einaudi, 1987).
Professore, in quel saggio ha scritto che il Castiglione e molte altre figure di rilievo «erano segnati da un’ansia, da una incertezza, da una sensazione di pericolo e di incombente catastrofe che rilevavano da situazioni assai concrete». È possibile o no un parallelismo con la crisi provocata dal Coronavirus? O vede un altro periodo prestarsi meglio a un raffronto?
Roland Barthes, in esergo al Piacere del testo pone questa citazione, ch’egli attribuisce a Thomas Hobbes: «La sola passione della mia vita è stata la paura». Così, più volte, i grandi capolavori sono nati: l’artista assumendo con vigore la coscienza amara del tempo. Non contempliamo forse meglio la serenità e la misura di Botticelli e di Raffaello ricordando che quel Rinascimento era pur stato attraversato dal rogo di Savonarola? Si può veramente definire, un secolo più tardi, pacificata l’arte di Poussin pensando alla «Peste di Azoth» (eseguita del resto a partire da un’incisione «La peste di Frigia» di Marcantonio Raimondi da un disegno proprio di Raffaello)? Il Castiglione stesso scriverà alla madre, il 12 agosto 1522: «La peste invero fa pur gran danno, ma non è ancor entrata in persone nobili: gran crudeltà è, perché quasi tutti quelli che se amalano ancor d’altro male sono lassati morire di fame e necessità, perché ognuno li rifuta, e questi apestati, per paura, non vogliono dire niente, di modo che è mala cosa». Poco più tardi, 1527, il «Sacco di Roma»; eppure nel 1528 veniva pubblicato Il libro del Cortegiano. L’arte non obbedisce al proprio tempo.
A suo giudizio in che modo la cultura, e l’arte, oggi possono risollevarsi?
Anselm Kiefer ha scritto nel 2011 un bel libro che vale anche per oggi: L’arte sopravvivrà alle sue rovine (Feltrinelli, 2018). È il destino dell’arte: varcare la morte dell’uomo, anche di chi ha creato l’opera. Il problema non è quello dell’arte, ma dell’artista, poiché la domanda è sempre la stessa: in nome di quale progetto e di quale dedizione totale ci si vota a creare qualcosa che rimanga oltre la morte dei creatori, dei committenti, del pubblico, e dell’oblio di una o più generazioni? La rottura di continuità che questa pandemia introduce rende solo più esplicita la domanda posta; senza mercato e senza pubblico, l’opera ugualmente sta.
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