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La scultura ha i piedi d’argilla

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Franco Fanelli

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Può essere una morte lenta, per consunzione causata dall’oblio o dal deperimento materico; oppure violenta, come ci hanno mostrato le immagini della devastazione del museo di Mosul da parte delle truppe dell’Isis. In ogni caso, anche la scultura, il genere artistico concepito per tramandare ai posteri la memoria di uomini e dei, deve prima o poi fare i conti con la propria fine. Già Arturo Martini le aveva associato l’idea di morte, riferendosi alla crisi di un linguaggio, quello della monumentalità. Una riflessione sulla scultura non come «lingua morta», ma come terreno in cui entrano in gioco i concetti di tempo, memoria, destino e durata dell’opera o al contrario la sua transitorietà, è quanto offre una mostra aperta alla Strozzina dal 17 aprile al 26 luglio. La rassegna si svolge in coincidenza con «Potere e Pathos. Bronzi del mondo ellenistico», che a Palazzo Strozzi sino al 21 giugno celebra opere che la sfida con il tempo e l’oblio l’hanno decisamente vinta (cfr. lo scorso numero, p. 33). La lunga agonia di una forma e di un materiale è il tema di un’opera di Giorgio Andreotta Calò, «Clessidra», l’orologio a sabbia così ricorrente nell’iconografia della vanitas, cui finisce per somigliare un palo d’ormeggio nella laguna veneta dopo essere stato corroso e «strozzato» dallo strofinio delle corde delle imbarcazioni. È invece la violenza (non senza ironia) a ispirare i vari tentativi di distruzione di un monumento nel video di Fernando Sánchez Castillo «Rich Cat Dies of Heart Attack in Chicago». Tra questi due estremi si muovono altri undici artisti (tutti intorno ai quarant’anni) scelti dal curatore Lorenzo Benedetti per la rassegna «Anche le sculture muoiono», parafrasi del titolo di un documentario  del 1953 «Le statues meurent aussi» di Alain Resnais e Chris Marker. C’è chi guarda all’antico, come Oliver Laric, che per evidenziare il ruolo della riproduzione e del calco trae le sue immagini da scansioni bidimensionali di opere esposte nella citata mostra a Palazzo Strozzi e chi, conscio della fragile durata di un monumento, ne erige di privati attingendo al proprio vissuto personale, come Francesco Arena, che costruisce le sue opere con reperti della quotidianità, come sigari e bustine di zucchero. Katinka Bock, che compone i suoi lavori con materiali diversi, dalla ceramica al vetro, dà forza alle sue sculture inglobandovi l’ambiente circostante, facendo dello spazio un tutt’uno con i propri lavori. N. Dash conferisce «eternità» allo stesso processo di consunzione dei materiali fotografandone gli effetti; anche Dario D’Aronco vorrebbe attribuire la granitica durata di una scultura a ciò che vi è di più effimero, il cartoncino d’invito a una mostra, «traducendolo» in vari materiali e media, dal cemento al video. Per altri, la fine e la scomparsa dell’opera sono ineluttabili. Allora Mark Manders, quand’anche realizzi sculture in bronzo, le dipinge per imitare la friabile terracotta, così come Michael Dean gioca con l’ossimoro lavorando il cemento per attribuirgli la levità di un origami; Nina Beier, invece, costruisce le sue opere con materiali presi in prestito (nella fattispecie tappeti, banconote e sculture) che poi vengono restituiti ai legittimi proprietari una volta terminata l’esposizione. Ma allora, che cosa rimane della scultura? Forse ossa, fossili e relitti, come sembra suggerire Francisco Tropa. Altri artisti spostano la stessa domanda in termini più generali: che cosa rimane degli oggetti legati alla nostra vita? Oscar Tuazón sottrae un elettrodomestico all’obsolescenza tramutandolo in modulo di una struttura geometrica astratta; Michael E. Smith, invece, eleva una canalina condannata alla discarica a immaginario strumento musicale. Chissà che dal riscatto dei nostri rottami quotidiani non passi anche quello della scultura, che nel riciclaggio potrebbe reperire le energie per una seconda vita.


 

Franco Fanelli, 01 aprile 2015 | © Riproduzione riservata

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