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Federico Florian
Leggi i suoi articoli«Voglio fare una mostra, mi sono detto, che ponga il seguente interrogativo: che cos’è un essere umano oggi, in una città in cui nel XV secolo il termine “uomo” era sinonimo di signore dell’universo, misura di tutte le cose».
Un tale slancio umanistico è all’origine della personale che lo scultore britannico Antony Gormley (Londra, 1950), cui si deve la precedente dichiarazione, ha pensato per i monumentali spazi del Forte di Belvedere a Firenze. «Human», per l’appunto, è il titolo dell’esposizione (visitabile fino al 27 settembre), a cura di Arabella Natalini e Sergio Risaliti.
Neoumanistica, a dire il vero, è tutta l’arte di Gormley, il cui punto di partenza, così come la sua finale destinazione, è inequivocabilmente la figura umana. E il corpo dell’artista, nel processo creativo, ricopre un ruolo cruciale: le sculture che popolano le sue installazioni, nella maggior parte dei casi, sono costruite a partire da calchi di se stesso.
Più di cento figure umane in ghisa, in scala 1:1, occupano le stanze interne della palazzina, i bastioni, le scalinate e le terrazze del Belvedere; in piedi, stese o rannicchiate su se stesse, le sculture presidiano punti focali, interrompono direttrici visuali o contemplano, meditando, la città dall’alto. La collocazione dei lavori è «attenta e giudiziosa», caratteristica tipica del modus operandi di Gormley (basti pensare a una delle sue opere più note, «Event Horizon» del 2007, composta da 31 sculture umane collocate in punti strategici dello skyline urbano, a Londra e New York).
Quella instaurata dall’artista inglese, infatti, è una raffinata riflessione sul rapporto uomo-spazio: la studiata costellazione di sculture attiva gli spazi del Forte Belvedere, arricchendone le potenzialità architettoniche. «Agopuntura scultorea», la definisce Gormley: una pratica volta a catalizzare le qualità intrinseche degli spazi.
L’installazione «Critical Mass», originariamente concepita dall’artista per un vecchio deposito di tram a Vienna nel ’95, attraversa in diagonale l’area del terrazzo più basso dell’edificio. Le 12 figure in fila indiana, ritratte in innalzamento progressivo, dalla posizione fetale a quella per osservare le stelle, alludono al progresso umano; sul lato opposto della terrazza un ammasso confuso di corpi evoca i conflitti del secolo scorso, il lato oscuro del processo evolutivo.
L’antropocentrismo di Gormley non è acriticamente ottimista: l’inquietudine e le zone d’ombra sollevate dai suoi lavori sono traccia di quella «tensione tra desiderio e inettitudine» che, a detta dell’artista, costituisce il fondamento di tutta la sua pratica.
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