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Il Padiglione dell’Islanda dentro l’ex chiesa di Santa Maria della Misericordia. Foto di Bjarni Grimsson

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Il Padiglione dell’Islanda dentro l’ex chiesa di Santa Maria della Misericordia. Foto di Bjarni Grimsson

La pseudo-moschea diventata davvero un luogo di preghiera

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Anna Somers Cocks

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La prima e unica moschea di Venezia dei tempi moderni era stata aperta solo 14 giorni prima che il Consiglio Comunale la chiudesse. La ragione addotta era che la gente ci pregava davvero, quando le autorità non avevano autorizzato una vera moschea, ma solo un’opera d’arte chiamata «La Moschea» all’interno di una chiesa non più adibita al culto (cfr. questo numero di «Vernissage», tutto dedicato alla Biennale, a p. 19). In altre parole, andava bene per gli islandesi, di cui questo era il «Padiglione nazionale» per la Biennale, realizzare qualcosa che fingesse di essere una moschea, dove la gente potesse fingere di pregare, ma se si fosse davvero rivolta all’Altissimo sarebbe potuta diventare una minaccia per l’ordine pubblico: i terroristi islamici ci avrebbero potuto mettere radici, o qualche xenofobo avrebbe potuto molestarvi i musulmani. Nel dubbio, si sarebbero potute invocare «Igiene & Sicurezza», perché l’edificio era costantemente più affollato di quanto consentito, secondo la polizia, e quindi chiuderlo non era che un atto dovuto.
Ma se qualcosa ti viene tolto è peggio che non averla mai avuta. Ci sono 15-20mila musulmani nel territorio regionale del Veneto e decine di essi erano presenti all’inaugurazione dell’8 maggio. Un marocchino, che ha vissuto in Italia per 20 anni e ha la cittadinanza italiana, mi ha confessato di quanto fosse felice che Venezia avesse finalmente una moschea, anche se ce ne sono sulla terraferma. Nel momento in cui siamo entrati nello spazio (e ci è stato detto di toglierci le scarpe), hanno iniziato a pregare. È in quel momento che ha avuto luogo quella trasformazione di atmosfera, da secolare a religiosa, che può o meno piacere.
In un cortese intervento all’inaugurazione, in perfetto italiano, Mohamed Amin Al Adhab, architetto e presidente della Comunità Islamica di Venezia, ha ringraziato la magia dell’arte per avere «riscaldato i cuori dei musulmani» e concesso loro una moschea, esprimendo la speranza che li conducesse ad averne una permanente dopo la chiusura della Biennale il 22 novembre.
La moschea è stata creata nell’ex chiesa di Santa Maria della Misericordia, in mani private dal 1969 e utilizzata, tra l’altro, come magazzino. Ora ha il mihrab e il minbar, le iscrizioni dal Corano, il display led degli orari della preghiera e il tappeto disegnato con le nicchie di preghiera. «Gli islandesi hanno messo in luce il problema dei cambiamenti demografici locali, ha detto Al Adhab. Hanno tolto la polvere a questo gioiello facendone un luogo vivo. Un tempo era una chiesa, ora è una moschea, ma ancora una volta un luogo per pregare lo stesso Dio perché ci conceda la pace». Amen, recitiamo tutti insieme. Ma si è trattato di un progetto appropriato per un’opera d’arte? Il curatore, Christoph Büchel, è specializzato in performance che coinvolgono persone in carne e ossa, come quando convertì temporaneamente la galleria di Hauser & Wirth di Londra in un centro per gli emarginati della società (e uno potrebbe chiedersi come si siano sentiti il giorno in cui si sono presentati e l’hanno vista nuovamente trasformata in una galleria ultrachic). Già quel progetto mi aveva messo a disagio, ma «La Moschea» mi fa proprio arrabbiare. Con la parvenza di fare qualcosa di radicale per l’arte e che potesse anche contribuire al miglioramento della società, Büchel, che non ha voluto rilasciare commenti, ha attaccato il suo carro a qualcosa di molto più potente e serio dell’arte, con il prevedibilissimo rischio di rendere la situazione peggiore per i musulmani e, di fatto, per tutti noi. Quel rischio è ora diventato realtà.
Il progetto ha provocato gli insulti di xenofobi e ignoranti; le autorità sono state fatte passare per ostili, e i fedeli non hanno più la loro moschea. Possiamo essere certi che questo episodio sarà postato su Twitter e su Facebook in tutto il mondo islamico e che l’offesa verrà smisuratamente amplificata, contribuendo alla paranoia generale. Sarà difficile chiedere scusa. Speriamo almeno che il nuovo sindaco di Venezia sia il magistrato anti corruzione Felice Casson, che quando seppe della moschea il giorno della sua inaugurazione disse che, per quanto lo riguardava, la gente poteva anche pregare in piazza San Marco. Se ci sarà qualcuno che troverà un edificio per rimpiazzare questa pseudo-moschea che voleva davvero essere una moschea, quello sarà lui.


Sulle moschee a Venezia Franco Miracco su «Il Gazzettino» (17 maggio) ha raccontato la curiosa vicenda di Sa’dullah Idrisi, ribattezzato dai veneziani di allora Saddo Drisi e scomparso nel 1838, dopo aver risieduto a lungo nel Fondego dei Turchi. Proprio qui, luogo di soggiorno dei mercanti di passaggio, la Repubblica di Venezia aveva autorizzato l’apertura di un bagno e di una moschea.

Il Padiglione dell’Islanda dentro l’ex chiesa di Santa Maria della Misericordia. Foto di Bjarni Grimsson

Anna Somers Cocks, 03 giugno 2015 | © Riproduzione riservata

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