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Francesca Petretto
Leggi i suoi articoliSe il dibattito sulle fotografie generate dall’intelligenza artificiale si è spinto molto avanti nei mesi successivi allo scandalo generato dalla vittoria, nell’aprile dello scorso anno, di Boris Eldagsen ai Sony World Photography Awards perché quando si tratta di immagini del terrore in troppi, studiosi, specialisti e critici, tacciono?
Un commento del principale storico dell’arte tedesco, Horst Bredekamp (1947), uscito in dicembre sulla «Süddeutsche Zeitung» e poi rimbalzato su molti media tedeschi, approfondisce il discorso contemporaneo sulla liceità delle immagini fasulle diffuse in rete e, fatto ancor più importante per chi si occupa d’arte, riporta alla ribalta il vecchio tema della propaganda per immagini.
Che senso ha oggi essere bombardati (mai participio passato fu più azzeccato) da scatti e video provenienti dalla Striscia di Gaza, accuratamente selezionati per la stampa occidentale dalla propaganda islamista, e su piattaforme di organi di informazione che invece censurano, senza troppo successo, pedopornografia e violenza sessuale? L’argomento è di scottante attualità: nell’assurda gara a chi sia il peggiore del momento, che ha già attribuito il ruolo di carnefice al Governo israeliano di Benjamin Netanyahu, nell’universo social va sempre più di moda accusarlo anche di poca trasparenza per aver deciso di non mostrare (se non all’Onu e ai capi di Governo giunti in visita all’indomani dell’attacco del 7 ottobre) le foto e i video messi subito in rete dai terroristi di Hamas e poi in parte prontamente ritirati nella paura di poter perdere una buona fetta di hooligan del peggiore stadio mai visto nell’ultimo mezzo secolo («E tu per chi parteggi?»). Le immagini diffuse per concessione di Hamas della liberazione degli ostaggi da parte di terroristi bardati di nero e con mitra a tracolla miravano anche a far dimenticare l’orrore delle loro precedenti gesta.
Molti Governi occidentali hanno deciso di non mostrare scene in presa diretta di bambini decapitati e stupri di massa, ma solo qualche sparatoria e/o case devastate da proiettili e fiamme, chiazze di sangue. Gli scenari dovrebbero, secondo la logica classica, raccontarci ancora di più proprio perché privi di corpi. Eppure la plebe affamata di «circenses» più che di «panem» reclama sempre più sangue. Oggi il vero attacco al corpo, spiega Bredekamp, e in particolare dall’assassinio in presa diretta nel 2004 di Nicholas Berg in Iraq da parte di Abu Musab al-Zarqawi in poi, non ha più come obiettivo primario l’uccisione di un nemico, ma piuttosto la documentazione dell’atto omicida attraverso un’immagine da diffondere come un’esperienza reale sulla rete. Allora, teorizzava il leader di al-Qaeda Mohammad Hasan Khalil al-Hakim (propugnatore della strategia della «Gestione della barbarie»), la diffusione di scatti di uccisioni non aveva lo scopo di suscitare simpatia per la propria causa, ma di dimostrare la spietatezza delle proprie azioni attraverso la repulsione suscitata dalle immagini e di creare disorientamento in tutto il mondo: «Si trattava soprattutto di un attacco emotivo a comunità che non volevano e non potevano rispondere allo stesso modo a causa delle loro convinzioni etiche».
Trasliamo quei ragionamenti nel nostro tempo. Il 7 ottobre i terroristi di Hamas si sono spinti oltre, indossando sui propri caschi delle telecamere per poter trasmettere in tempo reale le immagini del massacro e/o registrarle per usi futuri consoni alla propaganda islamista, e hanno ripreso trionfalmente i sequestri di ragazze urlanti stuprate, picchiate e trascinate su motociclette come su cavalli e carri di antica memoria (come ha scritto Simon Sebag Montefiore il 27 ottobre su «The Atlantic», «un’incursione mongola medievale per il massacro e i trofei umani»). Nell’escalation in corso le persone non vengono uccise per poter mostrare l’atto dell’omicidio ma «vengono lasciate in vita per far apparire come concepibile che possa essere filmato/fotografato un loro possibile omicidio o per far apparire il loro parziale ritorno come un atto di misericordia in cui si esprime l’arbitrarietà della decisione sulla vita e sulla morte». Come difendersi da questa retorica e dalla pornografia del dolore che ci bombarda dalla Striscia di Gaza? Criminalizzandone la visione, sostiene lo studioso: «La visione di queste immagini è complicità. (...) In linea di principio, i social media dovrebbero rendersene conto di propria iniziativa e interromperne la diffusione; ma si sa che non sono disposti a farlo».
Dall’altra parte la propaganda di guerra per immagini di Netanyahu decide, ora per pietà ora per calcolo politico, di non mostrare agli israeliani le proprie vittime del 7 ottobre e quelle del proprio esercito a Gaza, destreggiandosi abilmente in un ambito di cui padroneggia da tempo le regole. Il premier israeliano sa bene che non potrà liberare da sé gli ostaggi distruggendo al contempo Hamas: i suoi elevati obiettivi bellici sono irraggiungibili, ma questo in Israele (scrive Jakob Hessing sulla «Frankfurter Allgemeine») non è una novità.
E per quanto concerne la censura «a scartamento ridotto» nella stampa occidentale soprattutto europea? A cosa è ascrivibile e quali conseguenze ha? In Germania l’analisi di traffici e dati online ha da tempo evidenziato un crescente antisemitismo nei social media: c’è un legame tra la non pubblicazione delle immagini più violente e le esplosioni di odio antiebraico che si osservano da due mesi nelle strade tedesche nonostante la posizione ufficiale del governo di Olaf Scholz? A differenza della televisione israeliana, i reportage tedeschi mostrano molto bene i morti nella Striscia di Gaza; l’esercito israeliano viene da molti accusato di comportarsi come, se non addirittura peggio, dei nazisti: chi fa certi paragoni non conosce i metodi usati dai nazisti. L’appello è a non partecipare all’orrore: non cliccandolo, non diffondendolo in rete. Nessuno ne ha bisogno, non certo il processo di pace (per chi la vuole).

Palestinesi ispezionano i danni a seguito di un attacco aereo israeliano sull'aera di El-Remal, a Gaza City, il 9 ottobre 2023. Fonte: Wikimedia

Il presidente israeliano Isaac Herzog in visita al Kibbutz di Be'eri, novembre 2023. Fonte: Wikimedia
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