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Installation view della mostra di Marion Baruch da Viasaterna. Cortesia di Viasaterna. Foto Carola Merello

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Installation view della mostra di Marion Baruch da Viasaterna. Cortesia di Viasaterna. Foto Carola Merello

La poetica del vuoto di Baruch

L’ultra novantenne artista romena stupisce ancora per la forza poetica e la vitalità delle sue creazioni

Francesca Interlenghi

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Difficile sintetizzare la vicenda artistica, indissolubilmente legata a quella umana, di Marion Baruch (Timisoara, 1929) a cui Viasaterna dedica la prima mostra in galleria, continuando la collaborazione avviata con l’artista nel 2018. Una donna che ha attraversato tutto il Novecento, che ha conosciuto le contraddizioni e l’orrore dei regimi totalitaristi, e con essi la guerra e le deportazioni di massa, trovando una qualche forma di conforto nel disegno, praticato ogni giorno, fin da piccola, anche da rifugiata nelle campagne romene.

Muovendo da questa premessa e concentrandosi sull’ultimo decennio di produzione dell’artista, il progetto espositivo, visibile sino al 22 marzo, raccoglie 20 opere tessili realizzate tra il 2012 e il 2023, alcune delle quali inedite. Oltre a una serie mai esposta finora, intitolata «Meccanismi di precisione per sculture» (2022), dove gli scampoli, sospesi in teche aperte, intrattengono un dialogo con lo spazio che diventa parte integrante dei lavori.

Di origine ebraica, Baruch si forma dapprima all’Accademia di Bucarest e poi a Gerusalemme, dove studia alla Bezalel Academy of Arts and Design. Intorno alla metà degli anni Cinquanta arriva a Roma, e qui apprende e sperimenta linguaggi artistici diversi, trasferendosi poi definitivamente negli anni Settanta a Gallarate. Nella città italiana, legata al mondo dell’industria tessile, stabilisce la sua dimora e il suo atelier, che abbandona solo durante il periodo parigino, tra il 1993 e il 2010, in cui si dedica anche a progetti di arte relazionale.

Dopo essersi interessata alla scultura, alla performance e agli happening, dal 2012 sono i lacerti di tessuto il nodo centrale intorno al quale si sviluppa la sua ricerca. Dai residui delle confezioni del prêt-à-porter, da ciò che pareva ormai incapace di restituire nuova vita, Baruch riesce ad estrarre bellezza, suggestioni estetiche che parlano di rinnovamento. Il suo vocabolario, fatto di forme di stoffa generate dalla combinazione di gesto compositivo e forza di gravità, oltre alla fascinazione visiva, e a un altro livello di lettura, sottende una critica nemmeno troppo velata al capitalismo, alla sovrapproduzione e allo spreco conseguenti le abitudini di consumo.

Al «tutto pieno» dell’esistenza, l’autrice sembra contrapporre la poetica del vuoto. Le opere si esprimono infatti in una continua alternanza di spazi lasciati privi di materiale ed altri in cui i lembi di tessuto danno vita a costruzioni così leggere e impalpabili da spostarsi al minimo refolo di vento. L’impressione, muovendosi tra i lavori che instaurano una relazione dialogica con l’ambiente che li accoglie, è che non ci sia alcuna opposizione tra spirito e materia. Cittadina del mondo, «Mi sento di casa ovunque e con chiunque» le piace ripetere, l’ultra novantenne Baruch stupisce ancora per la forza poetica e la vitalità delle sue creazioni. L’arte dell’evocazione dei sentimenti si potrebbe dire, mai disgiunta dall’arte della vita.

Installation view della mostra di Marion Baruch da Viasaterna. Cortesia di Viasaterna. Foto Carola Merello

«Oranjegekte, Follia Arancione!» (2023) di Marion Baruch © Marion Baruch. Cortesia di Viasaterna e Galerie Urs Meile. Foto Carola Merello

Francesca Interlenghi, 01 marzo 2024 | © Riproduzione riservata

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