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Valeria Tassinari
Leggi i suoi articoli«È come se nella terra di mezzo, detta anche mundus imaginalis, il mondo materiale iniziasse il suo processo di smaterializzazione per inoltrarsi verso ciò che va oltre la materia». Così scrive il filosofo Federico Ferrari nel testo che, insieme ai versi di Domenico Brancale, accompagna la mostra di Sophie Ko (Tblisi, Georgia, 1981).
Proprio in quel «mondo di mezzo» tra esperienza e spiritualità, là dove si collocano gli artisti e poeti, ci si sente davvero guidati, di fronte a queste opere fatte di fango, ali di farfalla, bruciature, sterpi di campo, vecchi infissi di finestre che diventano reliquiari di cenere e terra, teche dove polvere d’oro e pigmenti ultramarini si muovono in lenta caduta, come tracce di icone medievali ormai dissolte.
Un mondo sospeso, distante dal quotidiano ma davvero non lontano da noi, dove l’evidenza della precarietà, del tempo che rende tutto caduco e transeunte, l’intuizione della fine dietro ogni esistenza, tutto si rivela poeticamente, in una commozione che sfiora la bellezza. «Il resto della terra», alla Galleria de’ Foscherari fino al 10 gennaio, è una personale importante, che suggella la maturità espressiva dell’artista, dopo una decennale ricerca incentrata sulla relazione tra materia e trascendenza.
Ispirata e libera dalle griglie che spesso ingabbiano il linguaggio, l’opera della Ko è sorretta da una potenza sentimentale romantica e da una consapevolezza concettuale che non entrano in conflitto, anzi si potenziano, tanto nella scelta dell’oggetto trovato e della materia naturale che sa di fuoco, di vento e di brughiera, quanto nella volontà di raccontare l’epopea drammatica dei migranti, in un gioco di carte disposte come in una battaglia navale. Intensa e calibrata tra memento mori e incanto, questa ricerca evocativa e tecnicamente controllata è determinata a nascere fragile, per inserirsi nel fluire dell’esistenza.

Veduta della mostra Sophie Ko, «Il resto della terra», alla Galleria De’ Foscherari
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