Foto di Martynas Plepys

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Foto di Martynas Plepys

La 14ma Biennale di Kaunas è una long-distance relationship

La rassegna lituana «conserva il carattere caotico dell’incontro fra persone accumunate da un sentire comune. Dalla visita si esce con l’impressione di esserci trovati a origliare gli aneddoti e gli affetti di un grandissimo gruppo di amici, unitissimi ma sparsi per il mondo»

Siamo giunti alla 14ma edizione della Biennale di Kaunas, manifestazione nata come focus sull’importante tradizione tessile della Lituania per diventare negli ultimi anni un’occasione di incontro fra linguaggi artistici del contemporaneo. L’edizione del 2023, aperta fino al 29 ottobre, si presenta dichiaratamente politica e transnazionale.

Con «Long-distance friendship», infatti, ci si propone di sottoporre le memorie di fratture storiche dolorose, dal controllo e poi collasso dell’Unione Sovietica al passato coloniale del continente africano, a un processo di cura collettiva che risponde alla volontà di incontro fra comunità, di dialogo e rielaborazione fra chi, pur vivendo in contesti molto differenti, sente di essere accomunato da una condizione traumatica e dalla volontà di superarla. Le curatrici che hanno affiancato l’istituzione nell’orchestrare questo coro sono Alicia Knock, curatrice a capo del dipartimento di arte contemporanea del Centre Pompidou di Parigi, tra le cui expertise troviamo anche le ricerche artistiche condotte in Africa e nell’Europa centrale, e Inga Lace, curatrice del Lcca-Latvian Center for Contemporary Art e Cmap-Central and Eastern Europe Fellow al MoMA di New York.

Le sedi scelte dalla Biennale di Kaunas perchè questi dialoghi possano germogliare non potrebbero essere più simbolici: lo storico ufficio postale cittadino, una caserma abbandonata e un’antica polveriera oggi centro culturale. Il passato militare è riconvertito, il luogo dello scambio per eccellenza rivitalizzato. Senza considerare la rete in cui la stessa Biennale si inserisce, con le gemelle mostre di Riga e Lubjana.

L’ex ufficio postale occupa un’iconica architettura modernista risalente al 1932 con un progetto di Feliksas Vizbaras, che testimonia il periodo in cui Kaunas è stata capitale temporanea durante l’occupazione polacca di Vilnius, fra il 1919 e il 1942. In virtù di questo ruolo istituzionale la città ha rapidamente trasformato il proprio volto, così che oggi, passeggiando lungo Laisvės Alėja, la più lunga via pedonale d’Europa, non stupisce il riconoscimento ricevuto dall’Unesco come Città del Design.

Lo spazio dell’atrio conserva traccia dell’occupazione originaria negli arredi e nei cicli decorativi che adornano il fregio superiore. Le vecchie scrivanie in legno degli operatori, le scaffalature a cassetti in cui erano conservate le lettere, oggi sono state trasformate nel crocevia fra il Benin, l’Etiopia, l’Uganda, la Costa d’Avorio, il Senegal e lo Zimbabwe, oltre che ovviamente, l’Europa dell’est. Memorie fotografiche, stralci di lettere, materiale filmico e letterario raccontano e intrecciano storie di libertà e di comunità, in cui si incontrano le ricerche di Odur Ronald, Summayya Vally e Moad Musbani con Thania Petersen e Sukanta Majumdar, Nino Kvrivishvili.

Con lo stesso spirito si attraversano gli spazi dei piani superiori e del sottopiano, fra stanze, corridoi e sottoscala. Talvolta la lettera è lo strumento di elaborazione di un trauma, come nell’opera di Judy Blum Reddy, che presenta uno scambio epistolare fra i membri della sua famiglia, ebrea rifugiata, durante la seconda guerra mondiale. Altre volte, lo scambio si sviluppa attraverso il medium sonoro, come nell’opera di Nikolay Karabinovych, un canto tradizionale ascoltato dalla cornetta di una vecchia cabina telefonica. Vale la pena concentrarsi sulla sezione che si muove sul sentiero dell’archetipo e per certi versi dell’eredità dell’archeologa lituana Maria Gimbutas, madre sugli studi delle società matriarcali in epoca preistorica.

I raffinati batik di Magdalena Birutė Stankūnaitė-Stankūnienė, la serie «Žemynos pasaka», risalente agli anni Novanta, dialoga con le tele pixellate di Adela Součkova. In entrambe l’interesse è rivolto ai culti matriarcali, nel primo caso nella forma delle antiche dee della terra, portatrici di frutti e protettrici di tutti i viventi; nel secondo con la riproduzione pittorica stilizzata delle dee madri, in tele le cui estremità sono tenute allineate fra soffitto e pavimento grazie alla presenza di piccole patate in germoglio, contrappesi che diventano idealmente radici del mondo divino nell’universo materico. Nell’aria il mito sulla creazione del mondo scritto dalla stessa Součkova con un richiamo alla musica gamelan indonesiana. Nella sala a fianco le sculture bidimensionali in cut-out di Žilvinas Landzbergas aprono all’universo dei simboli, così come simbolico è il piano del film di Andro Eradze, «Raised in the dust», che già avevamo avuto l’occasione di fruire alla Biennale di Venezia 2021, una narrazione sospesa fra domesticità e selvaggio.

Mentre la connessione fra le due sedi è cucita da Ibrahim Maham, in un’installazione urbana che interviene su una caserma abbandonata con stendardi di opere tessili di riuso, che citano la tradizione locale, la seconda sede della biennale è ospitata in un luogo che è l’esatta antitesi del concetto attorno alla quale si sviluppa la manifestazione. Parakas è un bunker bellico, nascosto in un’alta collina artificiale, dove le curatrici, dall’elaborazione dell’archivio osservata fino a quel momento, muovono verso la costruzione di un nuovo immaginario, allineandosi di fatto alla nuova vita di questo edificio, oggi sede di un collettivo auto organizzato a vocazione culturale.

Qui il passato è affrontato di petto, come ben chiariscono i ritratti fotografici di Šejla Kamerić, autobiografici, che accolgono il visitatore all’ingresso e ci raccontano la ferrea volontà di chi rifiuta la posizione affidatagli della storia, quella di teenager nell’assedio di Sarajevo negli anni Novanta, e sceglie di costruire in prima persona la narrazione di sé.

L’installazione più icononica è sicuramente quella di Yonamine e Ihosvanny Angel, che presentano un luogo di culto e memoria di Paulo Kapela, definito «punk raggae» guerrilla artist, figura centrale nella guerra civile angolana degli anni Ottanta. In un assemblaggio disordinato e vitale, Yonamine dischiara apertamente il suo interesse per il caos, elemento che accomuna la guerra, la sopravvivenza, la strada: troviamo gli oggetti più disparati, fiori, fotografie, libri a costruire un altare laico, mentre il visitatore è accompagnato da un inaspettato mix di musica tradizionale sutrarines baltica e percussioni congolese.

A quest’atmosfera da rave fa da contraltare il film di Andrius Arutiunian, che riporta in vita l’orchestra dell’Armenian Arizona club di Addis Abeba, in un’eco che procede per sottrazione. Dell’importante ricerca storica per ricostruire questa piccola storia di comunità specchio della complessa storia delle migrazioni del Mediterraneo, l’artista ci presenta più una malinconica sintesi emotiva e ipnotica.

«Long-distance relationship» è lontano dall’essere una narrazione istituzionale, conserva piuttosto il carattere caotico dell’incontro fra persone accumunate da un sentire comune. Dalla visita non si esce con un saggio visivo quanto con l’impressione di esserci trovati a origliare gli aneddoti e gli affetti di un grandissimo gruppo di amici, unitissimi ma sparsi per il mondo. Questa rimpatriata si conclude il 29 ottobre, ma certamente le conversazioni a distanza non mancheranno in futuro.
 

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Micaela Deiana, 12 gennaio 2024 | © Riproduzione riservata

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