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La libertà fatta a pezzi

Federico Florian

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«Il mio lavoro consiste nel mettere insieme diversi strati di tempo, forme e idee. Il mio punto di partenza è la produzione culturale che deriva dalla distruzione, dalla guerra e dalla violenza». Così Danh Vo (1975) in una recente intervista, definisce la propria pratica: i suoi oggetti, spesso frutto di assemblaggi improvvisati di reperti e manufatti storici (come rivelano l’installazione al Padiglione danese alla Biennale di Venezia e l’enigmatica collettiva «Slip of the Tongue» a Punta della Dogana, da lui curata), riflettono sul concetto di trasmigrazione culturale. Basti pensare alla biografia dell’artista, nato in una famiglia vietnamita trapiantata a Copenaghen, dove Vo è cresciuto. Un tale condensato di culture, tuttavia, tradisce una moltitudine di crepe, accostamenti forzati, rotture improvvise: i suoi lavori riportano le cicatrici della storia, di un passato spesso violento e traumatico. Il Museum Ludwig ospita, dal primo agosto al 25 ottobre, una sua personale dell’artista. L’esposizione, a cura di Yilmaz Dziewior, raccoglie nuove e passate produzioni di Danh Vo, ora residente a Città del Messico. Tra i lavori in mostra, uno dei suoi progetti più recenti, «We the People»: porzioni in rame di una copia 1:1 della Statua della Libertà di New York. Un simbolo decostruito e spezzettato, riprodotto in una foggia insolita e straniante (il colore rossastro del rame): la replica è composta da 250 frammenti dispersi in tutto il mondo, in quanto parte di diverse collezioni pubbliche e private internazionali. 

Federico Florian, 21 luglio 2015 | © Riproduzione riservata

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