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La fine dell’età dell’oro britannica

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Redazione GDA

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Londra. Dentro il British Museum l’atmosfera è cambiata. Una volta i passi di un visitatore occasionale sarebbero risuonati in sale di studio vuote e polverose, mentre ora il museo è pieno di gente ed è divenuto l’attrazione preferita dell’Inghilterra. Si tratta dell’«effetto Neil MacGregor». Quando fu nominato direttore nel 2002, ricevette un’istituzione in difficoltà. Il completamento della Great Court, su progetto di Norman Foster, aveva dato vita alla più grande piazza pubblica coperta d’Europa, ma le ripercussioni sul budget si facevano ancora sentire. Il programma di mostre era poco intrigante e confuso. Tredici anni dopo, la posizione del museo come uno dei più visitati al mondo non è più in discussione. Il numero di visitatori è salito da circa 4 a 6,7 milioni, secondo solo al Louvre. Mostre come «Adriano: impero e conflitto», «Hajj: viaggio nel cuore dell’Islam», «Vita e morte a Pompei ed Ercolano» e l’attuale «Definire la bellezza: il corpo nell’arte dell’antica Grecia» sono state di alto profilo ma popolari, accademiche ma alla portata di tutti. Il successo ha cancellato il deficit di 5 milioni di sterline. Inoltre, e forse questo è il risultato migliore, MacGregor ha aiutato il British a definire la sua missione. Come ha spiegato Charlotte Higgins su «The Guardian», «nessun altro ha affermato con altrettanta forza il concetto che le nostre istituzioni culturali, in particolare i musei nazionali gratuiti, sono luoghi in cui i cittadini possono ritrovarsi, tutti sullo stesso piano, per trovare lumi sulle spinte storiche che hanno formato l’Inghilterra e sulle sue connessioni con il resto del mondo».

Curiosità umana
MacGregor ha fatto tutto questo sia dirigendo il museo, sia attraverso trasmissioni come «A History of the World in 100 Objects» (la serie radiofonica della Bbc in 100 puntate, ad oggi scaricata 40 milioni di volte), dove ha condiviso la sua curiosità, la sua intelligenza e, cosa rara, la sua capacità di comunicare concetti complessi con un linguaggio alla portata di tutti. «Il lavoro di Neil è stato sorprendente. Ci ha guidati verso la rivelazione e la conoscenza ed è per questo che abbiamo un debito di gratitudine nei suoi confronti», afferma Peter Bazalgette, presidente di Arts Council England.
L’entusiasmo che MacGregor ha portato è una delle ragioni per cui la notizia delle sue dimissioni alla fine dell’anno, in vista del suo settantesimo compleanno, ha causato sconcerto nel mondo dell’arte. La sua decisione di ritirarsi da un incarico a tempo pieno per dedicarsi maggiormente alla radio, alla consulenza per l’Humboldt-Forum di Berlino e a un progetto sulle culture mondiali a Mumbai non è una sorpresa ma significa un cambiamento epocale. Un’importante generazione di direttori di museo se ne sta andando. A Londra, Sandy Nairne ha lasciato la National Portrait Gallery e Nicholas Penny la National Gallery. Voci insistenti indicano che Nicholas Serota lascerà la Tate una volta completato il nuovo edificio della Tate Modern, alla fine di quest’anno. Pur trattandosi di personalità molto diverse, condividono alcune qualità. Richard Dorment, critico d’arte del «Daily Telegraph» per circa lo stesso trentennio in cui questi uomini hanno dominato il panorama culturale britannico, sottolinea che sono tutti storici dell’arte: «Comprendono l’importanza della ricerca e gestiscono istituzioni che organizzano importanti mostre e pubblicano cataloghi significativi».
La magia del box office
Questi aspetti si sono accompagnati alla volontà di condividere la loro conoscenza. Persino Nicholas Penny, legato storicamente a un’epoca in cui il direttore si chiudeva nel suo ufficio e si dedicava alla stesura di volumi eruditi, ha organizzato mostre di Leonardo e Rembrandt divenute le più popolari di sempre nella storia della National Gallery. Dorment li definisce «impresari», uomini che hanno trasformato il pesante fardello della cultura inglese, rendendola glamorous e vibrante. «MacGregor è un mago del box office, un genio nella comunicazione», aggiunge.
È vero che questi direttori hanno operato in un clima propizio, recettivo rispetto alla loro ambizione di rendere l’arte davvero disponibile a tutti. L’aver occupato ruoli influenti a fine anni ’80 (MacGregor divenne direttore della National Gallery nel 1987 per poi andare al British nel 2002; Serota fu nominato direttore della Tate nel 1988, Nairne delle Arti visive dell’Arts Council nello stesso anno) coincise con i primi segnali della grande esplosione dell’arte inglese, capeggiata dagli Young British Artists. L’arte improvvisamente divenne un argomento di conversazione al pari della politica; la gente poteva magari odiarla, ma sicuramente ne parlava.
In questo contesto sono stati tutti beneficiari di un periodo di «magnanimità finanziaria» senza precedenti nella cultura inglese, e questo naturalmente ha avuto il suo peso soprattutto per affrontare le terribili condizioni in cui i musei si trovavano negli anni ’90. Stephen Deuchar, ex direttore della Tate Britain e ora direttore dell’Art Fund, ricorda che nei suoi primi anni da curatore, negli anni ’80, far riparare i tubi era già una sfida. Liz Forgan ricorda di aver guardato il soffitto della National Gallery e di aver visto del nastro adesivo per evitare che la pioggia cadesse dentro. John Major, l’allora primo ministro conservatore, lanciò la National Lottery con l’Heritage Lottery Fund, che si occupava di erogare i finanziamenti, e di cui Forgan divenne in seguito presidente. Dal 1994, ci fu il denaro non solo per ristrutturare gli edifici, ma anche per trasformarli, con un significativo programma di ristrutturazione e ampliamenti. «Fu un importante punto di svolta nella storia dei musei inglesi», spiega Deuchar.
L’arrivo del Governo laburista nel 1997 portò ulteriori buone notizie per l’arte: un periodo di investimenti pubblici stabili e garantiti. «La combinazione tra la visione dei Tories della lotteria e il costante finanziamento dei Laburisti si tradusse in un momento davvero magico di riconoscimento di quanto l’arte fosse importante, e una solida piattaforma sulla quale programmare il futuro», dice Deuchar.

Condizioni avverse
Questo periodo magico è già arrivato alla fine. I musei regionali soffrono dei doppi tagli nel budget da parte delle autorità locali e centrale; i musei e le gallerie nazionali direttamente finanziati dal Department for Culture, Media and Sport, hanno subito un taglio del 20% negli ultimi cinque anni. La tendenza preoccupa Forgan: «Non possiamo vivere sugli investimenti del passato, lo abbiamo già fatto per gli ultimi tre o quattro anni. In campo culturale non si possono aprire e chiudere i rubinetti. Gli investimenti devono essere continuamente sostenuti».
Forse questo senso di contrazione, successiva all’espansione, evidenzia la sensazione che la partenza di Neil MacGregor e dei suoi colleghi abbia un significato più profondo di un semplice passaggio di consegne a una nuova generazione. I nuovi direttori lavoreranno in condizioni diverse e meno propizie, anche se Peter Bazalgette, pur continuando a chiedere maggiori finanziamenti pubblici, è ansioso di sottolineare che «i momenti duri ti costringono a pensare». E aggiunge: «La nuova generazione partirà a costruire da quello che MacGregor e gli altri hanno fatto».
I segnali iniziali sono incoraggianti. La nomina di Gabriele Finaldi alla direzione della National Gallery (cfr. lo scorso numero, p. 23) riporta a Londra uno studioso di 49 anni il cui volume The Image of Christ, pubblicato per la prima volta nel 2000 mentre era curatore alla National, è stato scritto in collaborazione proprio con MacGregor. Come vicedirettore del Prado, Finaldi ha fatto parte della rinascita di un’istituzione ai limiti del moribondo, trasformata in un museo moderno e stimolante. Anche la scelta della National Portrait Gallery, che cade su Nicholas Cullinan, dal Met di New York, va nella stessa direzione. Il trentasettenne ha un curriculum invidiabile di curatore e da tempo il suo lavoro era sotto i riflettori.

Voci di corridoio
I nomi proposti per sostituire MacGregor comprendono Maria Balshaw, che si è recentemente occupata della rinascita della galleria Whitworth di Manchester in un centro dinamico per l’arte contemporanea; Diane Lees, che ha dato nuova vita all’Imperial War Museum; e Tim Knox, che solo recentemente si è trasferito al Fitzwilliam Museum di Cambridge, dove sta già organizzando interessanti mostre. I candidati potrebbero però provenire anche dal settore dell’archeologia; MacGregor all’inizio era considerato una scelta bizzarra per via della sua formazione. Dopo 13 gloriosi anni, questi dubbi degli inizi sembrano pura follia e ora MacGregor sembra impossibile da sostituire. Ma come ha ribadito Deuchar, «le istituzioni si evolvono e si adattano. Le figure importanti del passato vanno in pensione e sono sostituite da altre più giovani che diventeranno a loro volta importanti». Ciò nonostante ammette che alcune priorità dovranno essere resettate. La Tate, ad esempio, ora raccoglie più del 60% dei suoi propri fondi, il che ne fa non solo una grande galleria ma anche un grande affare. «La nuova generazione dovrà avere abilità curatoriali ma anche una visione ampia per continuare a coinvolgere il più vasto pubblico possibile, dichiara. Sono assolutamente ottimista che nel futuro ci saranno direttori in grado di farlo».
Le implicazioni sono che la prossima generazione dovrà rivelarsi creativa e assidua tanto nel fundraising quanto nell’organizzazione delle mostre e nelle attività di studio. In un certo senso questo avviene già; MacGregor è riuscito con successo a trovare nuove fonti di finanziamento. Ma come dimostra il suo esempio, è la combinazione tra capacità di giudizio, sensibilità, conoscenza e talento imprenditoriale che fa un vero leader. Come spiega Dorment: «Avere successo ha sempre a che fare con l’energia e con la comprensione dei valori centrali di un museo. Se fai bene queste due cose, il resto viene da sé».

Redazione GDA, 27 aprile 2015 | © Riproduzione riservata

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