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Redazione GDA
Leggi i suoi articoliGuido Bertero La mia passione per la musica classica è nata in un modo casuale, come molte cose che hanno segnato la mia vita. Avevo 18 anni, ero appena rientrato a Torino da un soggiorno di studio negli Stati Uniti, dove avevo assistito a un bellissimo concerto nell’auditorium dell’Università di Stanford. Era stata la suggestione del luogo ad avere la meglio in quell’occasione, una notte stellata, la situazione particolare, non tanto la musica in sé. Rientro a Torino e vado a tagliarmi i capelli; c’era un ottimo barbiere all’Hotel Palace e quando entro vedo un signore dal volto noto. Scopro non so come che era Arthur Rubinstein, una leggenda vivente del pianismo. In quegli anni non c’erano i social, la fama passava attraverso i giornali e quello era un personaggio che superava i limiti della cronaca culturale. Insomma, resta il fatto che io con la mia abituale faccia tosta mi metto a parlare, gli racconto della mia esperienza negli Stati Uniti e alla fine del dialogo lui mi invita al concerto che avrebbe tenuto quella sera al Conservatorio. La sera mi presento in biglietteria, non so cosa fosse successo ma eravamo in una trentina di ragazzi, tutti invitati da Rubinstein, ma i posti a sedere erano esauriti, e allora il maestro decise di farci entrare e sedere sostanzialmente sul palco, di fianco a lui: è immaginabile l’emozione, non la scorderò mai. Da quel giorno non ho più smesso di seguire la musica classica. Quanti viaggi abbiamo fatto con mia moglie Gianna, a Bayreuth, Salisburgo, Lucerna….
Walter Guadagnini A Lucerna dirigeva un maestro al quale è particolarmente legato.
Ho una stima infinita per Claudio Abbado, per me è stato il più grande, ed era una persona di un’umanità straordinaria. Ci siamo conosciuti una volta, non ricordo nemmeno bene dove, dopo un concerto, e poi lo abbiamo seguito in giro per l’Europa, diventando non dico amici ma certo buoni conoscenti. Anche in questo caso ho un ricordo molto divertente, che dà la misura di quanto incida il destino sulla nostra vita. Siamo con Gianna in vacanza a Santiago de Compostela, in un magnifico albergo sperso tra le montagne e, mentre stiamo facendo il check in nel parador in cui alloggiavamo, vedo la locandina di un concerto di Abbado che si sarebbe tenuto quella sera. Suonava con l’orchestra sinfonica del Venezuela «Simón Bolívar», il gruppo di giovani musicisti sudamericani creato da Antonio Abreu e fatto conoscere in Europa proprio da Abbado. Era un progetto al quale si dedicava con particolare impegno, perché era un intellettuale generosissimo anche da questo punto di vista. Insomma, chiedo al portiere se secondo lui ci fossero ancora biglietti, lui mi dice di provare, il concerto era alle nove, ma io ormai ero agitatissimo, come sempre mi succede quando c’è qualcosa a cui tengo veramente, come la mostra a cui stiamo lavorando adesso. Usciamo di corsa dall’albergo, arriviamo al luogo del concerto e, non solo facciamo i biglietti, ma sentiamo che dalla sala arrivano suoni, voci; entriamo e vedo il Maestro che sta mangiando una banana insieme ai ragazzi in una pausa delle prove. Io mi avvicino per salutarlo e lui mi invita a rimanere: ci ritroviamo Gianna ed io con una banana in mano ad ascoltare uno dei più grandi direttori d’orchestra della storia che chiacchiera con due signori torinesi e con dei ragazzi provenienti dall’altra parte del mondo in una sala da concerto all’estremo Occidente d’Europa. Sono stato sulla sua tomba che è nel piccolo cimitero di un paesino dell’Engadina, Sils-Maria. Praticamente è l’unico non natio della valle, è un luogo commovente. Ecco perché dico che la curiosità nella vita è fondamentale. Se io non fossi stato curioso non avrei fatto alcune delle esperienze più belle ed emozionanti della mia esistenza, compresa quella del collezionare fotografie.
(A questo punto si gira verso la stanza di fianco e chiama ad alta voce: «Gianna, ti ricordi dove ho messo il libro di …..? È un libro preziosissimo, è quasi l’unica copia esistente, se Enrica (Viganò, Ndr) scopre che non lo trovo più mi toglie il saluto, ho tanto insistito per averlo»). Qui c’è la lettera che mi ha scritto Branzi quando ho acquistato la serie completa del «Miracolo di San Gennaro». Lo aveva quasi già venduto al MoMA di San Francisco, è stata una delle mie grandi soddisfazioni da collezionista.
W.G. Però la sua passione per l’arte, il suo animo di raccoglitore, non nasce con la fotografia
G.B. No, la fotografia viene per ultima, in realtà. Ho iniziato, come quasi tutti i collezionisti della mia generazione, con i mobili (antichi), poi con le ceramiche, le maioliche, passando per l’arte antica. Erano gli anni Sessanta, ci eravamo appena sposati, nel 1964, e arredavamo casa cercando di farlo nel miglior modo possibile. Mio padre è mancato quando ero molto giovane, avevo preso in mano l’azienda e ovviamente ero carico non solo di lavoro, ma anche di responsabilità. Però bisogna anche dire che era un periodo storicamente straordinario, c’era un senso di rinascita e di possibilità molto bello, si lavorava tanto ma si guadagnava anche bene, Torino attorno alla Fiat era una città fiorente in un Paese che correva verso la modernità. È stata un po’ la fortuna e la sfortuna di questa città, alla quale sono così legato, andava tutto così bene in quegli anni che in tanti si sono adagiati, nei decenni successivi non si sono resi conto che il mondo stava cambiando e quando l’hanno capito era troppo tardi. Ma torniamo al collezionismo: poi è iniziata la mia grande passione per l’arte moderna e contemporanea e anche a questo proposito l’ambiente circostante ha fatto molto. Torino tra gli anni Sessanta e Settanta era all’avanguardia da questo punto di vista, c’era la Gam che proponeva mostre di respiro internazionale, cresceva la generazione dell’Arte povera e soprattutto c’erano gallerie incredibili come il Punto di Gian Enzo Sperone, la Gissi, la Martano, Anselmino, Tazzoli. Andavi nelle gallerie e davvero ti acculturavi, non erano solo dei luoghi dove qualcuno cerca di venderti della merce (come sono diventate purtroppo molte gallerie oggi, soprattutto quelle gigantesche multinazionali), erano dei punti di ritrovo per scambiarsi idee, progetti, per conoscere gli artisti, tant’è che con molti di loro sono rimasto poi amico. In quegli anni il mio primo pensiero era comunque rendere solida l’azienda, dare certezze alla mia famiglia, quindi certi autori, che pure qui a Torino erano disponibili (da Tazzoli sono passati Bacon, Gnoli ecc., da Sperone i pop), erano troppo cari per me allora e sono rimasti lì. Io poi per carattere sono molto prudente e quindi mai e poi mai faccio il passo più lungo della gamba, anche nel collezionare. Ma mi sono tolto comunque delle belle soddisfazioni. Penso a quel personaggio che vendeva i Licini al piano di sopra della sua bottega dove svolgeva la sua attività principale o a quel mercante che arrivò con un dipinto del Seicento caricato sul portapacchi dell’automobile una sera in cui era ospite a casa mia una conservatrice del Metropolitan Museum con la quale stavo discutendo il prestito di alcune mie incisioni di Juvarra per una mostra a New York. Ricorderò per sempre la faccia della signora quando il mercante tolse la coperta che proteggeva il quadro. È impagabile, la ricorderò per sempre.
Poi s’inaugura il Castello di Rivoli, nasce Artissima…
Ed è proprio lì che nasce anche la mia passione per la fotografia. Confesso che fino a quel momento della fotografia non mi interessava nulla, non capivo come qualcuno potesse collezionare delle immagini che erano sì interessanti, ma non mi pareva potessero avere un valore artistico. Per giunta non erano pezzi unici, che senso aveva collezionarle? Però, rimane il fatto che alla prima o alla seconda edizione di Artissima vedo nella galleria di Raffaella Cortese, che già allora era una bravissima e appassionata gallerista, un paio di foto di Jan Groover che mi attirano per la loro qualità, come dire, pittorica. Erano due nature morte, un soggetto classico della pittura, virate in uno strano bianco e nero. Insomma, le compro senza pensarci troppo con l’idea di regalarle alle mie figlie. Non l’avessi mai fatto, mi vien da dire adesso! Pochi giorni dopo, sempre ad Artissima, incontro Daniela Trunfio, al tempo attivissima in particolare nell’organizzazione delle mostre della Biennale di Fotografia di Torino, che mi chiede una mano per riuscire a far venire in città Duane Michals, il grande fotografo che per me allora era un perfetto sconosciuto. Michals da buon americano poneva come condizione della sua mostra l’acquisto di un’opera e l’acquisizione delle foto della Groover mi poneva come potenziale collezionista di fotografia… Io dissi a Daniela che continuavo a non essere particolarmente interessato alla fotografia in sé, ma che avrei volentieri contribuito a far arrivare in città un artista di fama internazionale. In quegli anni noi eravamo anche amici del Castello di Rivoli, diretto magistralmente da Ida Gianelli, quindi pienamente coinvolti nella vita artistica cittadina. Anche quella è stata una bella stagione. Agli inizi dei Duemila Castagnoli stava dando nuova energia alla Gam, Torino si rilanciava in vista delle Olimpiadi del 2006. Per farla breve, organizzo allora una cena in onore di Michals a casa, c’erano anche amici artisti, Gastini, Mainolfi, i direttori di alcuni musei, altri collezionisti e naturalmente ospiti invitati da Daniela che provenivano dal mondo della fotografia. Tra questi sconosciuti, c’era anche una ragazza piena di entusiasmo, Enrica Viganò, allora impegnata nello studio e nella diffusione delle opere del Neorealismo fotografico italiano.
Qui comincia un’altra storia, giusto?
Sì, la passione e la competenza di Enrica unite alla mia curiosità danno vita a questa splendida avventura, che idealmente trova il suo compimento in questo volume. (si gira di nuovo verso l’interno della casa: «Gianna, che anno era quando siamo andati a PHotoEspaña la prima volta?»). Era il 1999, sì, Enrica stava preparando questa mostra sui dieci protagonisti del Neorealismo italiano per il festival a Madrid e abbiamo cominciato a girare l’Italia cercando di raccogliere le immagini più belle. Io ne ho comprate molte, ma questo è stato solo l’avvio, poi è cominciata la vera e propria caccia, per rendere la collezione sempre più completa. Devo dire che con questo lavoro abbiamo tolto dall’oblio tanti personaggi che erano stati dimenticati e sono convinto di avere contribuito in maniera importante alla valorizzazione di un periodo della storia e della cultura italiana davvero cruciali. La recente mostra alla New York University, organizzata sempre da Enrica, con la successiva acquisizione da parte del Metropolitan di quasi 100 fotografie neorealiste, tra le quali alcune donate da me, mi ha fatto capire quanto lavoro abbiamo fatto in questi anni. Ma devo anche dire che quello che mi gratifica ancora di più è il bagaglio di esperienze umane che ho vissuto durante la ricerca delle opere, le persone che ho conosciuto, le amicizie che ho stretto: ognuna di queste fotografie mi ricorda una storia, un aneddoto che la rende ancora più preziosa. Penso a Pasquali che quando lo chiamavo maestro pensava lo prendessi in giro, alle figlie di Bepi Bruno che mi offrivano una minestra mentre discutevano tra di loro il prezzo delle fotografie. Pensa che ancora oggi Pepi Merisio mi manda tutti gli anni a Natale un biglietto di auguri sotto forma di fotografia. Sono gesti che vanno al di là del possedere o meno un oggetto. Potrei andare avanti per giorni, ma è per far capire quanto conti l’aspetto umano in questa vicenda, che per me poi è anche uno dei valori della fotografia.
In che senso?
Perché per me il valore primario di una fotografia, o quanto meno quello che a me interessa di più, è il suo valore di documento, di testimonianza di un certo evento, di un certo momento storico, è la memoria delle persone, di ognuno di noi. Quando guardo le foto della mia collezione amo ripensare o rivivere i momenti in cui sono state scattate; non sono sempre «belle fotografie» da un punto di vista tecnico, ma sono straordinarie dal punto di vista della documentazione. In molti casi si tratta di situazioni, momenti che ho vissuto personalmente, da bambino, da adolescente e da adulto, e mi piace ricordare come ero, come eravamo; è importante sapere e ricordare da dove veniamo e la fotografia da questo punto di vista è impagabile.
Però nella raccolta ci sono anche numerose fotografie scattate negli Stati Uniti negli anni prima della guerra. In quel caso non sono ricordi personali.
Certo. Quel nucleo, che contiene delle fotografie meravigliose, che amo tantissimo, è il risultato di un’idea critica che ho voluto esplorare. Mi sono domandato se in effetti la stagione della Farm Security Administration e della Photo League non fossero un po’ l’equivalente americano del nostro Neorealismo e ho tentato di creare questo parallelo. A me pare abbia un senso, guardando proprio le immagini, ma io non sono un critico, lascio a voi dire se questa ipotesi sia plausibile o meno. Quello che so di sicuro è che purtroppo sul capitolo americano sono stato costretto a fermarmi per ragioni economiche e di qualità: quando ho cominciato a comprare quelle fotografie, i prezzi si erano alzati in maniera consistente e le immagini di qualità si erano già fatte rare e, di conseguenza, molto costose. Con i budget che mi ero dato, avrei potuto solo fare una raccolta minore e questo non mi è mai interessato; penso che non abbia senso fare una cosa se non puoi almeno puntare a farla al meglio. Il collezionismo è una passione totalizzante. Comunque in collezione ci sono anche alcune foto dell’Ottocento, Naya, Sommer: anche queste le ho acquistate perché mi sembravano in qualche modo le anticipatrici del Neorealismo. Costruisco i miei percorsi, come credo faccia ogni collezionista.
Molte delle immagini americane vengono da gallerie come Danzinger e Howard Greenberg: che rapporti ha avuto con loro?
La cultura americana è molto pragmatica e questo vale anche per il mondo dell’arte, per cui posso dire che sono molto professionali e che proprio per questo il loro interesse è primariamente economico. Ma, come sempre, noi italiani siamo in grado di ottenere risultati fuori dal normale grazie alla nostra intraprendenza e alla nostra faccia tosta, per cui io ho avuto la fortuna di essere accompagnato da Greenberg stesso negli archivi di «Time-Life» quando stavano procedendo ad alienare alcune delle stampe del loro immenso patrimonio. Non posso non ricordare con emozione che cosa ha voluto dire aprire quegli schedari nei quali sostanzialmente c’era la storia del fotogiornalismo, le immagini che avevo visto pubblicate prima nei giornali e poi nei libri, ero come un bambino in un negozio di giocattoli tutto a mia disposizione. Sono anche riuscito ad acquistare qualche fotografia, quelle di Capa ad esempio.
Rispetto all’idea della fotografia come documento, come giustifica le immagini per così dire astratte presenti nella collezione? Si tratta di un desiderio di completezza del periodo preso in considerazione dagli anni Trenta circa agli anni Ottanta?
No, è un’altra questione. È che mi rendo conto che la macchina fotografica può essere anche uno strumento come un pennello, col quale tu realizzi delle immagini che non hanno bisogno del riferimento diretto alla realtà, immagini che portano in sé un’idea di bellezza e anche del tempo che le ha generate. Prendiamo Migliori: la sua fotografia della macelleria è il documento esemplare di come si viveva in un certo luogo in un certo momento; si riconosce ogni dettaglio della storia di quelle persone e di quel luogo. Quando guardo però una delle sue ossidazioni, mi sembra di vedere un quadro di Hartung, mi dà sensazioni completamente diverse dalla fotografia realista, ma non per questo meno intense. A proposito di Migliori, oggi siamo molto amici, ma il primo incontro non è certo stato facile. Eravamo andati a trovarlo a Bologna e avevamo visitato una sua mostra a Pavullo, nel modenese. Al ritorno in macchina io guidavo, lui era di fianco a me, Gianna e Marina erano sedute dietro. A un certo punto inizia una discussione tra di noi a proposito del vintage. Lui ha questa sua teoria per cui la fotografia può essere costantemente ristampata senza perdere di valore anche economico. Io, che stavo impazzendo per cercare ovunque le stampe d’epoca degli autori che collezionavo, ovviamente non ero d’accordo; ne è nato un vero e proprio litigio, durato tutto il viaggio. Naturalmente quando ci siamo lasciati, a Bologna, ci siamo riappacificati, ma quando Gianna si è seduta di fianco a me in macchina sulla via per Torino, mi ha guardato e mi ha detto: «Ma voi siete matti, se fai così d’ora in poi io non vengo più in giro con te». Da lì però è nato un bellissimo rapporto, al quale tengo tanto quanto alle foto di Nino. E spero che riesca a venire all’inaugurazione della mostra, sto chiamando tutti quelli che hanno contribuito alla nascita di questa raccolta: mi piacerebbe fosse una grande festa per la fotografia italiana, che merita più di quello che ha avuto sino ad oggi.
Collezionare però vuol dire anche conoscere, il collezionismo è anche una forma di conoscenza, un’occasione di studio...
Infatti, quando ho cominciato non sapevo nulla di fotografia, oggi non mi considero un esperto, ma qualcosa credo di avere imparato. Prendiamo ad esempio la fotografia di Capa con il contadino che indica la strada al soldato americano, in Sicilia. La versione che avevo io è quella meno nota, con varie persone che compongono la scena; poi, studiando, scopro che esiste quest’altra versione, più nota, molto più iconica, e quindi anche di maggior valore da un punto di vista della storia della fotografia, con solo due personaggi e il bastone del contadino perfettamente parallelo alla linea dell’orizzonte che divide a metà lo spazio. Allora inizio la ricerca, alla fine la trovo e naturalmente la acquisto: oggi le vedi assieme e non è semplicemente una questione di estetica, di forma, è che vedendole una di fianco all’altra capisci bene che Capa era uno che controllava nei minimi particolari la fotografia, altro che attimo fuggente. Così lo sguardo si affina, come l’orecchio se ascolta tanta musica, e aumenta anche il piacere. Anche in questo caso un aspetto affascinante riguarda però il rapporto con le persone. A parte il rapporto con Enrica Viganò, alla quale devo un riconoscimento particolare per tutto quello che mi ha fatto conoscere in questi lunghi anni di collaborazione, mi ha fatto molto piacere quando una sua giovane collaboratrice mi ha segnalato che una foto che io amo particolarmente, quella dei bambini che scendono con la teleferica a Guiglia nell’immediato dopoguerra, non è, come mi era stato detto al momento dell’acquisto, di Tino Petrelli, ma di Franco Gremignani: non cambierà la storia della fotografia, ma è una restituzione a un autore oscurato dalla fama di un collega più noto di lui. Contemporaneamente mi fa piacere vedere che ci sono giovani che hanno ancora voglia di studiare: mi pare un passaggio di testimone di generazioni e tutto avviene intorno al frutto di questa mia passione. Mi sembra un’altra bella storia da raccontare.
Perché la collezione si ferma sostanzialmente agli anni Ottanta, con qualche preziosa ma isolata presenza più recente?
È una domanda legittima, che ha una risposta molto semplice: non ho più spazio…
È per ragioni di spazio che molte fotografie sono appese alle pareti della sua azienda?
Assolutamente no. Quella è una scelta che ho ben ponderato, ci tenevo a condividere almeno una parte della mia collezione con quanti lavorano con me tutti i giorni e al cui impegno devo tanto. Non a caso non mi sono limitato a mettere le fotografie negli uffici, ma ho voluto proprio creare uno spazio espositivo per permettere a chi lo volesse di godere al meglio di queste immagini. In fondo è un modo per rendere pubblica, almeno parzialmente, una raccolta privata ed è un pensiero che mi accompagna costantemente. Credo sia abbastanza tipico della personalità di un collezionista, o almeno molti di quelli che conosco sono così: da un lato hai un senso molto forte del possesso, dall’altro hai voglia di condividere, di far partecipi anche gli altri della tua passione. Tornando alla domanda, la risposta sugli spazi mancanti è vera, ma è ovviamente parziale: in verità, si arriva a un punto in cui non si riesce più a seguire una certa evoluzione del linguaggio, è come se non si vedesse più con quella profondità e quell’entusiasmo che devono guidare la creazione e lo sviluppo di una collezione. La mia si conclude sostanzialmente con gli anni Ottanta, con la generazione di «Viaggio in Italia»: Ghirri, Basilico, Jodice, Cresci, per me sono gli ultimi rappresentanti di una certa idea di fotografia nella quale mi riconosco, fotografi straordinari che hanno saputo rinnovare il linguaggio ma hanno continuato comunque a raccontare la realtà. Dopo di loro non solo le immagini, ma tutto il mondo che ruota intorno alla fotografia è cambiato: lo capisco, è naturale che sia così, però a me non interessa, lascio ad altri il compito e il piacere di occuparsi delle nuove generazioni.
È una questione di sensibilità diverse e la mia collezione rispecchia in pieno la mia sensibilità, non voglio stravolgerla per dimostrarmi aggiornato, non è nelle mie corde. L’ultimo acquisto è la magnifica foto di Ghirri che ho voluto anche come copertina del volume Allemandi. Mi sembra quasi una dichiarazione di poetica: c’è una coppia che si avvia verso una montagna, chissà quanta strada hanno percorso, ma gliene resta ancora tanta per arrivare alla loro meta. La scena infonde una grande serenità, anche se indubbiamente c’è della malinconia. Poi io amo la montagna, ho anche partecipato a tre edizioni della Marcialonga.
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