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Gallerie degli Uffizi. Foto: Wikipedia

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Gallerie degli Uffizi. Foto: Wikipedia

La battaglia per l’arte d’Italia sul Financial Times

Per il giornale anglosassone il tentativo populista di prendere le redini dei musei rischia di politicizzare i tesori culturali del Paese

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Redazione GdA

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Nelle consultazioni per un nuovo governo, non è apparsa alcuna traccia sul Ministero dei Beni culturali. Ma pochi giorni prima, il ministro Bonisoli ha fatto passare in extremis il decreto legge della «controriforma» dei musei italiani, che decurta quella del predecessore Franceschini. Questi due ministri appartengono ai partiti che si sono coalizzati dopo essersi contrapposti aspramente per anni. L’impatto della riforma Bonisoli è stato analizzato dal «Financial Times» in un lungo articolo di Rachel Sanderson e Davide Ghiglione del 23 agosto. Ne riportiamo una sintesi, in attesa di conoscere chi sarà il prossimo ministro dei beni culturali.

Eike Schmidt, direttore tedesco degli Uffizi per quattro anni, è pronto a lasciare il museo ad ottobre, sconfitto dalla politica disfunzionale dell’Italia, che ha raggiunto il punto di rottura con le dimissioni del premier Giuseppe Conte. La sua partenza coincide con un momento in cui i leader populisti del Paese sembrano determinati a politicizzare il suo straordinario patrimonio artistico. Schmidt era arrivato a Firenze nel 2015 come parte di una radicale riforma che mirava a scuotere il sistema polveroso e sclerotico dei musei italiani. Erano stati nominati venti nuovi direttori che avevano ricevuto un'autonomia senza precedenti, la libertà sui loro bilanci, di rinnovare le gallerie, di organizzare prestiti internazionali e cercare finanziamenti privati​.

Nella riforma vi era un altro elemento radicale: per la prima volta nella storia italiana i direttori dei musei italiani, storicamente impiegati statali attinti dalla pubblica amministrazione, potevano essere candidati stranieri.

Schmidt ha conquistato una reputazione di ammodernatore implacabile, riducendo l’attesa per visitare le gallerie degli Uffizi a soli sette minuti, utilizzando l’intelligenza artificiale, ottenendo dalla casa di moda Gucci due milioni di euro per l’accesso esclusivo al museo; organizzando spettacoli di musica dal vivo per attrarre visitatori negli orari non di punta. Le sue misure sembrano aver funzionato: il numero di visitatori delle gallerie degli Uffizi, che includono Palazzo Pitti e il Giardino di Boboli, ha raggiunto i 4,2 milioni, i ricavi i 34 milioni.

Alla fine di giugno, il ministro della cultura Alberto Bonisoli, esponente del Movimento Cinque stelle (fino a una settimana fa in coalizione con il partito di estrema destra di Matteo Salvini) ha presentato una proposta accolta con orrore da molte persone nella comunità artistica. Il piano di Bonisoli ridava il controllo statale sui principali musei italiani, potere di veto sulla spesa, sulle mostre e sui prestiti internazionali, demolendo i consigli di amministrazione indipendenti istituiti per dare assistenza ai musei.

Bonisoli ha detto che il suo piano sradica «l'anarchia», ma il timore è che spiani la strada allo Stato per usare il suo potere sui ricchi depositi d’arte in Italia per scopi politici. Il governo ha accelerato la riforma in Parlamento il 15 agosto, giorno festivo, quando la maggior parte delle persone era in vacanza o distratta dalla crisi politica. È entrato in vigore lo stesso giorno.

Per Schmidt, il piano è indice di un fallimento non limitato alla sfera culturale italiana: il «problema dell’incertezza» derivante dall’instabilità politica cronica ostacola anche i piani migliori. È preoccupato per l'accumulo di controllo sui musei italiani da parte del governo: «la centralizzazione di quest’ultima riforma va di pari passo con la politicizzazione del sistema museale». Un altro paese che persegue politiche culturali comparabili è l’Arabia Saudita: «Non credo che ci sia un Paese nel mondo libero e occidentale, con una politica della cultura così centralizzata come adesso in Italia».

James Bradburne, direttore anglo-canadese della Pinacoteca di Brera, definisce la controriforma una proposta di «neo-sovietizzazione del sistema museale italiano, nonostante si sappia che in Unione Sovietica il controllo centralizzato non ha funzionato». Bradburne afferma che le proposte stanno già avendo un effetto negativo sulla raccolta dei fondi, sugli eventi e su ciò che richiede pianificazione: «È una catastrofe di prim’ordine».

Per il Financial Times, l’ineguagliabile patrimonio artistico dell’Italia è forse il suo principale asset di soft power. Il paese ha il maggior numero di siti Patrimonio mondiale Unesco (50, con la Germania al secondo posto con 43). Ma il patrimonio italiano e la sua gestione espongono il Paese alle contraddizioni più profonde: afflitto dalla disoccupazione e dal declino economico, lo Stato fatica a trovare le risorse economiche necessarie per tutelare le opere d’arte del Paese.

«Quando abbiamo messo un tedesco agli Uffizi, i miei concittadini a Firenze non mi hanno parlato per settimane», afferma Matteo Renzi, primo ministro responsabile delle riforme del 2015. Renzi, salito al potere nel 2014 su un’ondata di speranza che lui potesse arginare l’inesorabile declino dell’Italia, in campagna elettorale citava la frase di Dostoevskij «la bellezza salverà il mondo». Renzi afferma di essersi reso conto quando era sindaco a Firenze che la burocrazia culturale italiana «non funzionava come avrebbe dovuto o avrebbe potuto». «In Italia ho visto più opere d’arte e più opere d’arte belle di quelle che ho visto nei musei quando viaggiavo per il mondo. Ma nei musei italiani c’era una burocrazia invariata dal 1800». La sua riforma ricevette grida di disapprovazione. «Era una febbre di ristrettezza mentale», afferma il critico d’arte conservatore italiano Vittorio Sgarbi, particolarmente turbato dall’arrivo dei direttori stranieri: «abbiamo un sacco di italiani che avrebbero potuto fare quel lavoro». Guardando indietro, Renzi si chiede se non avrebbe dovuto essere ancora più radicale: «il primo passo è stato fare l’autonomia, ma la riforma completa avrebbe dato ai direttori il ​​potere di scegliersi anche il loro personale».

Tribunali regionali hanno successivamente tentato di annullare la riforma, fino a quando il più alto tribunale amministrativo italiano ha deciso l’anno scorso che i direttori stranieri potevano rimanere. Il Financial Times segnala che «Il Giornale dell’Arte» aveva condannato in un recente editoriale la posizione anti-straniera del governo: «Che cosa importa da dove provengono i direttori, se sono dotati di talento?».

L’inversione ad U rispetto a una riforma che ha aperto la cultura italiana al mondo per una controriforma che prevede di restituire il controllo a Roma «è molto, molto negativa in termini di immagine del paese», afferma Lorenzo Casini, docente di «Cultural Heritage» all’IMT Alti Studi di Lucca.

Il ministro italiano della Cultura, Alberto Bonisoli, considera le opposizioni alla sua proposta «senza senso». Dichiara di non essere contrario all’autonomia in sé, e che la libertà data ai direttori dei musei ha prodotto migliori risultati economici: «aiuta la dignità del museo, c’è una migliore reputazione, ci sono più visitatori, più legami con la città in cui si trova il museo. Ma ho notato che questo fenomeno si è verificato in modo anarchico». Afferma che le regole dovrebbero essere applicate in modo equo nei 500 musei italiani e dirette da Roma, e prevede di assumere 5mila nuovi dipendenti al Ministero dei Beni culturali. Da dove arriverebbe il denaro, dato il budget bloccato dell’Italia, non è chiaro. «Il punto è questo: voglio che i direttori dei musei siano bravi. Ciò che non è più necessario è andare a cercare prima di tutto gli stranieri».

Bonisoli afferma che «la più grande anarchia è stata la libertà data ai direttori dei musei di prestare opere d’arte a istituzioni straniere» citando il caso Leonardo come esempio. Sostiene che l’Italia dovrebbe prestare le sue opere solo a Paesi amici dei suoi interessi nazionali. Lucia Borgonzoni, sottosegretaria al Ministero della Cultura ed esponente della Lega, ammette che «togliere l’autonomia ai musei per fare prestiti nell’interesse nazionale, significa che i musei perderanno il loro potere di organizzare mostre, perché il patto è: io presto a te, tu presti a me». Borgonzoni, che è stata determinante nella decisione dell’Italia di respingere il prestito di Leonardo al Louvre, è provocatoria: «Dovremmo sapere che cosa ci offrirà Parigi per la nostra mostra per i 500 anni dalla morte di Raffaello».

Arturo Galansino, direttore di Palazzo Strozzi, principale museo italiano con finanziamento privato, ha lasciato l’Italia durante gli anni di Berlusconi per lavorare a Londra, alla National Gallery e alla Royal Academy. Ritornato in Italia al tempo delle riforme di Renzi, perché aveva percepito un «nuovo ottimismo», oggi si sente «più pessimista». La sua preoccupazione non è la controriforma in sé, ma il costante susseguirsi di riforme in Italia. Ci sono state otto riforme del sistema museale negli ultimi dieci anni e un nuovo governo di coalizione potrebbe benissimo farne un'altra.

«Abbiamo bisogno di un governo coerente nella sua attenzione al settore museale, dal punto di vista dell’identità, della cultura e della società», afferma Andrea Rurale, direttore del Master in Arts Management and Administration all’Università Bocconi di Milano, e teme che l’eccessivo susseguirsi di riforme possa spezzare il valore che l’Italia ha nelle sue risorse culturali, non riuscendo a gestirle in modo efficace. L’ironia, in un’economia in declino impantanata nel debito nazionale, è che le risorse culturali sono uno dei pochi punti di forza rimanenti all’Italia. «Il brand Italia è ancora forte, può andare avanti per altri dieci anni, ma il suo slancio non è infinito».

Eike Schmidt considera che il ruolo culturale degli Uffizi rappresenta una fonte inestimabile di orgoglio nazionale italiano, e allo stesso tempo contribuisce a nutrire gli ideali umanistici e di apertura mentale che sostengono l’Europa moderna. È la finestra italiana sul mondo. «Il museo è fatto per l’umanità». Per lui, la battaglia sugli Uffizi non riguarda semplicemente il glorioso passato dell’Italia, ma anche il suo incerto futuro.
 

Gallerie degli Uffizi. Foto: Wikipedia

Redazione GdA, 28 agosto 2019 | © Riproduzione riservata

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