«Ifa» (2023) di Ranti Bam alla Biennale di Liverpool. © Rob Battersby. Cortesia della Liverpool Biennial

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«Ifa» (2023) di Ranti Bam alla Biennale di Liverpool. © Rob Battersby. Cortesia della Liverpool Biennial

La Biennale di Liverpool tra passato schiavista e qualche cliché

35 artisti da sei continenti e 25 Paesi. È curata dall’artista e sciamana Khanyisile Mbongwa la 15ma edizione del più longevo festival di arti visive del Regno Unito

«I miei fondi sono a Liverpool, non ad Atlanta»: così, in «Via col vento», Rhett Butler rispondeva a Rossella O’Hara che gli chiedeva 300 dollari per pagare le tasse a Tara. Ma perché un facoltoso uomo di mondo che passava il tempo a oziare nelle piantagioni di cotone nel Sud degli Stati Uniti avrebbe dovuto tenere i suoi soldi a Liverpool? La risposta è negli abiti che Rhett indossa: Liverpool è stata costruita sul cotone. Ecco il tema cui guarda la Biennale di Liverpool, il più importante e longevo festival di arti visive del Regno Unito, che fino al 17 settembre analizza il rapporto della città con una delle merci più cruente.

La Biennale inizia nella Tate Liverpool, costruita sul porto turistico della città e sul primo molo commerciale del Regno Unito, completato all’inizio del XVIII secolo. Nel 1759, un giornale di Liverpool pubblicò l’annuncio di un’asta: il miglior offerente si sarebbe aggiudicato 28 sacchi di cotone appena arrivati dalla Giamaica. Il ritaglio, conservato nel Merseyside Maritime Museum cittadino, è il primo esempio registrato di commercio di cotone a Liverpool.

Ai moli della città arrivavano bastimenti da Brasile, India, Medio Oriente e da Charleston, città portuale nella Carolina del Sud. Il cotone era raccolto a mano dagli schiavi delle piantagioni, i cui antenati erano sopravvissuti alle traversate oceaniche sulle imbarcazioni provenienti dall’Africa. Questo commercio rese Liverpool, per breve tempo, uno dei porti più ricchi del mondo (l’Inghilterra abolì il commercio degli schiavi nel 1807).

Intitolata «uMoya: The Sacred Return of Lost Things» questa edizione della Biennale è curata dall’artista sudafricana Khanyisile Mbongwa. «uMoya» in lingua Zulu significa spirito, anima, respiro e vento. La Biennale è stata concepita da Mbongwa come «un tentativo di restituzione di ciò che è stato perso e sottratto a coloro che sono stati messi a tacere o dimenticati. Le opere in mostra sono pratiche di emancipazione da storie di costrizione, il lavoro di artisti allontanati dalla loro lingua madre».

Mbongwa definisce la propria attitudine curatoriale come una pratica di «assistenza e cura». Le opere in mostra impongono una ricerca interiore, invitando la gente di Liverpool a «non vedersi come pubblico, ma come testimone». Ma Mbongwa è anche una Sangoma, una guaritrice spirituale e sciamanica, per questo ha concluso la sua presentazione con un rituale Zulu legato agli spiriti dei suoi antenati.

L’edizione di quest’anno è piuttosto incisiva, con 35 artisti da sei continenti e 25 Paesi. 15 hanno creato opere ad hoc. I lavori sono articolati in 14 spazi, alcuni improvvisati in edifici abbandonati risalenti al periodo del commercio del cotone, tra questi il Cotton Exchange e il Tobacco Warehouse, un tempo il più grande edificio in mattoni del mondo.

Nella Tate la rassegna si apre con «Liquid a Place» (2021) dell’americano Torkwase Dyson: imponenti grumi d’acciaio, metà lisci, metà screziati e arrugginiti, che sembrano essere rimasti nell’acqua del molo antistante esposti alle intemperie, visibili solo a metà, come lo scafo di una nave. Una targa spiega che il molo su cui sorge la galleria fu costruito «per servire e accelerare la tratta degli schiavi transatlantici», un commercio che ha portato alla morte di 2,4 milioni di africani schiavizzati. L’opera «esamina la storia e il futuro delle strategie di liberazione».
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Mbongwa spiega che «Liverpool è lì per essere scavata per mettere a nudo la sua storia coloniale, il suo ruolo nel commercio degli schiavi e nella creazione dell’Impero britannico». A Liverpool si cammina su un terreno problematico, dove gli spiriti dei morti sono vivi, ma inascoltati.

Al piano superiore l’opera del guatemalteco Edgar Calel, «The Echo of an Ancient Form of Knowledge» (2021), composta da frutta disposta su rocce. Molte rocce, molta frutta. In cima, grumi frastagliati di sedimenti, carote, sedano e peperoni. Sembrerebbe una provocazione maliziosa, alla Cattelan, ma la spiegazione di accompagnamento chiarisce che l’opera «agisce come una forma di resistenza sulla scia del razzismo, dell’esclusione sociale e della cancellazione culturale degli indigeni».

Nella Open Eye Gallery troviamo il lavoro di Saandra Suubi, artista ugandese che lavora con oggetti di recupero, fotografia e performance. La serie esposta, intitolata «Samba Gown» (2021), ruota intorno a un fluente abito da sposa sul quale sono scarabocchiati messaggi come «le donne non hanno voce in capitolo nel matrimonio» e «gli uomini sono come bambini». Sulle pareti un’imponente donna africana indossa un mantello in mezzo a una discarica; persone indigenti e cicogne bianche raccolgono rifiuti di plastica. La mostra sembra evocare una performance svolta in questo luogo desolato, ma le fotografie ne fanno solo un accenno. Si tratta anche, si spiega, di «una dichiarazione di resistenza».

In «Take Away» (2018) del mozambicano David Aguacheiro, invece, fusti di petrolio sono ammassati in una piccola barca di legno, intorno ritratti fotografici monocromi che parlano di perdita, dislocazione e disastro. L’opera media sui «colonizzatori mascherati che conducono guerre prodotte per arricchirsi a spese del popolo», scrive l’artista.

Non intendo essere superficiale sulla sincerità degli artisti emarginati o indigeni. Abbracciare una diversità di voci globalizzate e lavorare per una migliore comprensione della nostra storia comune sono sempre, di per sé, sforzi buoni e giusti. L’arte è spesso un forum fruttuoso per discutere di politica. Queste verità sono evidenti, ma alcune delle opere esposte alla Biennale sono problematiche di per sé.

Il primo problema è la fungibilità. L’arte emancipata è oggi un genere a sé stante, che si sta popolando rapidamente mentre continua a essere messo in mostra. Installazioni di bidoni di petrolio, riferimenti a barche, tessuti intrecciati, abiti ancestrali, autoritratti fitti di motivi: la verità è che molti artisti che lavorano a livello globale fanno leva su queste «storie di costrizione», il che significa che corrono il rischio di diventare derivativi, eccessivamente letterali e decisamente ripetitivi.

Suubi deve competere con artisti contemporanei come l’afroamericano Nick Cave, che da tempo utilizza mantelli, tessuti e abiti per esplorare la propria ascendenza, identità e genere, con Rebecca Belmore, la prima artista indigena a rappresentare nel 2005 il Canada alla Biennale di Venezia, e il cui sacco a pelo in argilla fusa «Ishkode (Fire)» (2021) ha conquistato la Biennale di Whitney nel 2022.

Aguacheiro deve stare al fianco di artisti come Lydia Ourahmane, che quasi un decennio fa ha creato «The Third Choir» (2014), un’installazione di tamburi usati per trasportare il petrolio dalla sua nativa Algeria, opera della collezione permanente della Tate Britain.

La Biennale sta affrontando anche un problema di inquadramento. Quando i curatori si confrontano con argomenti complicati e conflittuali, spesso si rifugiano nella rete di sicurezza di una sintassi curatoriale apparentemente benevola, ponendosi come mediatori di nuovi modi di vedere. Questo lessico riconosciuto a livello internazionale, insegnato nelle scuole d’arte, cerca spesso di posizionare l’arte in stati «liminali» di ambiguità. Questo linguaggio è, di fatto, infarcito di cliché. E quando si fa affidamento su questi cliché, quando vengono utilizzati in modo libero e non specifico, rischiano di avere un effetto schiacciante sull’arte in mostra.

Questa rete di sicurezza è stesa su molte opere della Biennale, dalle più forti alle più deboli. «Mangroves» (2023) di Shannon Alonzo è un murale site specific con ritratti caraibici intrecciati con paludi di mangrovie, realizzato a carboncino nel seminterrato del Cotton Exchange. È un’opera ammaliante e spettrale di un giovane artista con una chiara abilità nel disegno. Eppure ci viene detto che è «una storia collettiva di resistenza, cancellazione, lavoro femminile, tradizione e gioiosa celebrazione». Certo, da un lato è così. Ma il lavoro spontaneo di Alonzo è anche e sicuramente molto più di questo.

Ma, sotto questo peso, ogni tanto la biennale canta. Nei giardini della chiesa parrocchiale di Liverpool, l’artista nigeriana Ranti Bam espone una serie di sculture in argilla che si incurvano e si dividono; ognuna è stata creata dall’artista abbracciando l’argilla mentre si indurisce. La serie è intitolata «Ifa» (2021), con rimando alla parola yoruba ifá, che significa il divino, e Ìfá, che si traduce con avvicinamento.

Le forme femminili hanno una lunga storia nell’arte, ma sono mai state rappresentate in questo modo? Le sculture sono lasciate all’aperto per affrontare qualsiasi cosa Liverpool offra loro: l’artista si rallegra quando un uccello di passaggio si posa su una di esse.

Le opere, quindi, parlano di giovinezza e fertilità, invecchiamento e decadenza. La loro presenza nel giardino di una chiesa le impregna di domande sulla natura e sulla fede. «Come la nostra pelle, sono imperfette, scrive Bam. Gli Ifa si piegano e si screpolano, si piegano e si guastano con drammatica spontaneità».

Liverpool è stata costruita sul cotone. Questa eredità è ancora attiva nella città di oggi. Ma chi sono gli eroi moderni della Liverpool del 2023? Trent Alexander-Arnold, un calciatore prodigioso il cui nonno è emigrato dal Commonwealth per fare di questa città la sua casa. L’atleta Katarina Johnson-Thompson, figlia di un uomo delle Bahamas, o l’attrice Jodie Comer, discendente di immigrati irlandesi. Molly McCann, che ha superato un’infanzia di abusi per diventare una lottatrice riconosciuta a livello mondiale. Un altro calciatore, Mohamed Salah, è un devoto musulmano cresciuto in un piccolo villaggio in Egitto che ha fatto del Merseyside la sua casa. La Biennale fatica a riconoscere questa splendida città di oggi, e dovrebbe farlo. Perché, come tutti sappiamo, il tempo passa troppo in fretta.

Khanyisile Mbongwa. © Bongeka Ngcobo. Cortesia della Liverpool Biennial

Tom Seymour, 20 giugno 2023 | © Riproduzione riservata

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