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Ci indigniamo di fronte alle distruzioni, ma dimentichiamo che le funzioni primarie di certe immagini erano spirituali e non artistiche: di fronte abbiamo un nemico, non un bandito
Sergio Romano (Vicenza, 1929) è storico, scrittore e saggista (oltre 50 i libri pubblicati, dal 1969 al 2013), giornalista e opinionista (ogni giorno risponde ai lettori del «Corriere della Sera» che lo interrogano su questioni politiche e culturali), già docente universitario negli Stati Uniti e in Università italiane ed è stato un diplomatico di grande prestigio in qualità di ambasciatore alla Nato e a Mosca. Da vent’anni ormai fa, come dice lui, «un altro mestiere», ma sarà per il physique du rôle, sarà per la naturale autorevolezza e per la pacata eleganza nell’esporre il suo pensiero (anche quando enuncia verità scomode), questa figura e questo ruolo gli sono, per così dire, rimasti «cuciti» addosso e per tutti resta sempre «l’ambasciatore Sergio Romano»: «il che mi sconcerta e mi imbarazza, sorride lui. Ma devo dire che c’è un precedente: nella Parigi degli anni precedenti la Rivoluzione francese, dove erano molti gli americani giunti lì dopo la guerra per l’indipendenza americana, insieme a Thomas Jefferson, Benjamin Franklin e altri, c’era anche un certo “gouverneur Morris”: nessuno seppe mai che cosa governasse, ma per tutti restò sempre “le gouverneur”».
Con lui parliamo dunque di argomenti attinenti ai beni culturali, nell’ottica politica e internazionale, che gli appartiene, avendo lui ricoperto la carica di direttore degli Affari culturali per il Ministero degli Affari Esteri. Ed ecco, subito, un’opinione che va contro la vulgata più diffusa: «Il patrimonio artistico è ormai troppo spesso considerato con una sorta di “gelosia patriottica”: di fatto, vorremmo continuare a possedere tutto ciò che è stato concepito sul nostro territorio. Si tratta di una tesi abbastanza recente e tale combinazione di patriottismo e nazionalismo, nella gestione del patrimonio artistico, sta creando alcuni problemi. Porto l’esempio, vissuto in prima persona, del “Cratere di Eufronio” (proveniente dal saccheggio, del 1971, di una tomba etrusca, il cratere fu illecitamente acquistato dal Metropolitan Museum di New York, Ndr). Ero allora direttore degli Affari culturali e fra ciò che cercai di fare c’era il recupero di quel cratere: molti studiosi me lo chiedevano, l’etruscologo Massimo Pallottino in testa. Lavorai in quella direzione e, mettendo un po’ in imbarazzo il Metropolitan Museum, con Olivetti (allora molto influente per la sua politica culturale) riuscimmo a ottenere un convegno internazionale sul patrimonio artistico e sulla restituzione dei beni trafugati, che si tenne proprio al Metropolitan.
Il convegno andò molto bene, con un momento davvero buffo: sapevamo tutti che il “cadavere” di cui si stava parlando era al piano di sopra e ci fu un certo imbarazzo quando il direttore del dipartimento di Arte greca e romana ci condusse, in pellegrinaggio, a vederlo. In seguito, con l’aiuto dell’allora soprintendente Carlo Bertelli, organizzammo un convegno simile a Brera, cui partecipò tra gli altri Philippe de Montebello, allora direttore del Metropolitan Museum. Poco dopo, però, una qualche Direzione del Ministero per i Beni culturali d’improvviso stipulò un accordo di reciproco scambio con il Metropolitan, spuntandoci così le uniche “armi” di cui disponevamo: cioè l’opportunità per il museo di intrattenere un rapporto culturale forte con l’Italia, in vista anche di prestiti futuri. In seguito il ministro Rutelli prese in mano la questione e riportò in Italia il cratere (esposto nel Museo Nazionale di Villa Giulia a Roma, Ndr), anche perché nel frattempo gli Stati Uniti si erano resi conto che i numerosi casi di opere d’arte di provenienza illecita stavano diventando troppo imbarazzanti. In realtà ciò a cui io avevo a suo tempo puntato era però non tanto la restituzione quanto piuttosto una forma di condivisione del bene».
Perché una condivisione?
Mi sembrava più giusto, perché il rischio sempre presente in questi casi è che accada ciò che accade con i Bronzi di Riace o la Venere di Morgantina che, restituita all’Italia, dopo un anno era stata vista da 22mila persone, contro le 400mila che l’avevano vista nel 2013 al Getty Museum. Ma, per tornare al Vaso di Eufronio, devo dire che provai dell’imbarazzo in quella trattativa.
Perché?
Stavo rivendicando, è vero, qualcosa che avevamo il diritto di rivendicare. Ma arrossivo, perché avevamo dimostrato di non aver saputo gestire il nostro patrimonio. Ricordo bene come i media americani, che erano molto interessati alla questione, mi chiedessero ripetutamente se ci fosse stato un processo, ma non ci fu mai un vero procedimento giudiziario. Qualcosa fu avviato, ma mai concluso. Che cosa potevo rispondere a chi mi chiedeva se io avessi le prove che il cratere era di sicura provenienza illegale? E questa fu la ragione prima della nostra debolezza nella trattativa.
La questione delle restituzioni delle opere d’arte ai Paesi d’origine è comunque molto dibattuta, a partire dai marmi del Partenone, portati a Londra da lord Elgin.
Proviamo tutti simpatia per la Grecia ma non si può dimenticare che la storia dei marmi di Elgin è particolare: la Grecia allora era turca e lord Elgin probabilmente li salvò. Non solo, ma a Londra per quei marmi è stato realizzato un allestimento museale rigorosissimo. Il British Museum, poi, non è un semplice magazzino di reperti ma è uno straordinario pezzo di cultura europea: dovremmo smontarlo per restituire i marmi? Dovendo decidere, mi sembra sia meglio accettare una collocazione ormai «storica».
Esistono però anche beni non usciti illegalmente ma razziati in guerra. E sui bottini di guerra lei ha scritto un libro.
Sì, è Arte in guerra (Skira, 2013: il libro tratta dei saccheggi e dei bottini di guerra, soprattutto da Napoleone a oggi, Ndr). Dalla Menorah del Tempio di Gerusalemme, portata a Roma ed esibita nel suo trionfo dall’imperatore Tito dopo la conquista della città, ai Cavalli di san Marco, portati a Venezia da Costantinopoli nel 1204 dal doge Enrico Dandolo, dopo la quarta Crociata, l’arte è sempre stata il simbolo del trionfo, la preda più ambita. Ma anche solo dall’età napoleonica in poi gli esempi sono innumerevoli: il Trattato di Tolentino del 1797, stipulato dopo la Campagna d’Italia di Napoleone, sancì per esempio che gli Stati sconfitti (fra i quali lo Stato pontificio) «pagassero» la pace con opere d’arte. Superfluo insistere sul «collezionismo» nazista, così ingordo e rapace. Anche gli Stati Uniti fecero però la loro parte: le élite americane erano ben consapevoli dell’importanza del patrimonio italiano e allertarono al riguardo la presidenza e il generale Eisenhower, comandante supremo delle forze alleate. Il quale, va detto, mostrò sensibilità al tema, arrivando a diramare il 29 dicembre 1943 un comunicato sulla necessità di preservare il patrimonio artistico italiano. Tuttavia, meno di due mesi dopo, 250 aerei alleati rasero al suolo gran parte dell’Abbazia di Montecassino. Oltre ai bottini, non si possono poi dimenticare gli infiniti rivoli delle appropriazioni indebite durante le guerre. Ricordo che quando ero all’Ambasciata d’Italia a Londra, alla fine degli anni Cinquanta, un distinto signore chiese di essere ricevuto per restituire al Governo italiano alcuni libri provenienti da un monastero dell’Italia centrale.
Lei avrà incontrato molti direttori di grandi musei internazionali: che impressione ha tratto di quel mondo?
Mi sembra un mondo largamente dominato da baronie e gelosie professionali: la razionalità raramente prevale nella gestione del patrimonio. I più «baronali» finiscono per gestirlo come fosse un’appendice della loro persona. Il che non accade solo in Italia: penso per esempio al predecessore di Montebello al Metropolitan, Thomas Hoving, l’uomo degli «incauti acquisti». In sostanza, c’è il «barone» che considera il museo come cosa propria; c’è poi il direttore di museo che diventa un po’ l’impresario di se stesso, anche sul piano dell’immagine, e infine c’è chi si lascia irretire dal «complesso Berenson-Duveen»: in questi casi non si sa mai dove inizino il potere del denaro o la volontà di primato. Anche se può essere umanamente comprensibile, non si tratta certo di un modello virtuoso.
Qual è la sua opinione sulla vicenda del Gran premio assegnato a Robert Rauschenberg nella Biennale del 1964, in cui torna sempre a galla il ruolo della Cia che, come sostiene tra gli altri Frances Stonor Saunders nel suo libro «La Guerra fredda culturale», avrebbe inteso spostare l’asse dell’arte contemporanea dall’Europa agli Stati Uniti?
Sono la persona meno indicata per risponderle, perché ho una specie di prevenzione allergica per le dietrologie. Perciò tendo a non credere a certe trame occulte. Forse sbaglio, perché talora queste trame esistono, e del resto è possibile che gli Stati Uniti, in un momento di vera «ubriacatura imperiale», abbiano preteso di esercitare sull’arte una sorta di egemonia. La Cia, è vero, è stata così manutengola, intrigante, pasticciona, che alla fine le si può addebitare quasi tutto, però non credo che ci sarebbero riusciti in assenza di altre condizioni, e mi domando: «Avrebbero avuto il potere di farlo, in un settore in cui sappiamo bene quanti fattori agiscono?». Non si è mai capito come certi movimenti d’opinione a un certo punto diventino valanga: lo si constata a cose fatte, e benché sappiamo che ci sono persone in grado di indirizzare l’opinione pubblica, questa materia contiene un tale tasso d’irrazionalità che è davvero difficile prevederne i risultati. Per esempio, chi capì, allora, che la contestazione che fece saltare la Biennale di Venezia del 1968 stava minando la credibilità stessa dell’istituzione?
A suo parere fu miopia? Autolesionismo?
Per spiegarlo mi rifarei al libretto di Carlo Maria Cipolla sulle Leggi fondamentali della stupidità umana, riassumibili in quella per cui lo stupido è colui che danneggia se stesso pur di danneggiare gli altri. Questa categoria abbonda in Italia soprattutto, mentre nei Paesi in cui ho lavorato più a lungo (Gran Bretagna, Francia, Belgio e Urss) era più rara. In Francia talora scatta qualcosa di simile, ma poi in nome della «grandeur» tutto torna a posto. In Inghilterra non era certo così e il Belgio è un Paese piccolo ma serio. Quanto all’Unione Sovietica, non poteva fare testo; però il patriottismo russo è fortissimo e tuttora resta il più grande capitale politico di Putin. Al contrario il nostro nazionalismo, forse per effetto della nostra storia, è quasi sempre vittimista: ci appassioniamo quando abbiamo motivo di considerarci vittime di qualcosa. Quanto all’autolesionismo italiano, scrissi anche un piccolo saggio sulle ragioni per cui gli italiani odiano se stessi (pubblicato in Finis Italiae, Scheiwiller, 1994, Ndr).
Veniamo al nostro tempo: pensando alle distruzioni perpetrate dai talebani sui Buddha di Bamiyan o dall’Isis nei territori assoggettati, lei pensa che la diplomazia potrebbe fare qualcosa?
Quando si combatte certamente no. Ma anche qui occorre un minimo di riflessione, per non finire in una sorta di damnatio collettiva. Non si può dimenticare che le religioni monoteiste portano in sé l’iconoclastia. E se pensiamo che il monoteismo rappresenti un passo avanti rispetto, per esempio, all’animismo, dobbiamo accettare anche questo. Noi abbiamo secolarizzato l’immagine religiosa, considerandola quasi soltanto sotto il profilo artistico e non per il suo messaggio spirituale, mentre in Russia, per esempio, l’icona porta in sé il sacro. Bisogna in primo luogo capire, e non per tollerare o «perdonare», ma perché dobbiamo avere un’idea del nostro nemico, che non possiamo trattare alla stregua di un bandito, per di più folle. Queste distruzioni vanno considerate come manifestazioni del monoteismo, certo nelle sue forme più spietate e radicali. Ciò vale per i Buddha di Bamiyan ma non per Palmira, perché l’Isis ha sì annunciato di volerla distruggere, ma poi non l’ha fatto. Parrebbe piuttosto una strategia di comunicazione. In altri casi, invece, hanno venduto i reperti per finanziarsi. Dunque lo scopo era utilitaristico.
Una domanda personale: quali periodi della storia dell’arte predilige?
Non potrei indicarle un periodo specifico: sono molto eclettico, amo l’archeologia ma amo anche l’arte orientale ed estremo-orientale. Posso dirle però che prediligo l’antico, con qualche occasionale sosta nell’arte moderna e contemporanea.
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