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L’Arcadia romana di un Orfeo americano

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Franco Fanelli

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Venezia. Se per Cy Twombly le parole avevano un potentissimo valore evocativo, come si conveniva a un artista che più di altri realizzò il sogno dell’«ut pictura poesis», e se dalle stesse parole poteva scaturire la sua pittura («Il suono di “Asia Minor”, dichiarò, equivale a un impeto per me»), quella scritta «Orpheus» che attraversa diagonalmente un suo dipinto del 1975 ha anche il valore di una firma, o di una dichiarazione d’intenti. Orfeo come epitome della figura dell’artista, capace di riunire in sé l’armonia apollinea e la sfrenata sensualità dionisiaca, ma anche di dialogare e di compenetrarsi con la natura, è il mitologico alter ego dell’artista americano (Lexington, Virginia, 1928-Roma, 2011). Se ne ha conferma di fronte alle 46 opere (quattro delle quali sculture) che compongono, 14 anni dopo il conferimento all’artista americano del Leone d’Oro della Biennale, la retrospettiva «Paradise», allestita dal 6 maggio al 13 settembre a Ca’ Pesaro. Curata da Julie Sylvester, vicepresidente della Cy Twombly Foundation (che, presieduta da Nicola Del Roscio, compagno dell’artista, ha collaborato insieme alla Gagosian Gallery all’organizzazione della mostra) e da Philip Larratt-Smith, che firma il testo in catalogo, la rassegna non ha l’ampiezza dell’antologica del 2009 alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, ma riesce comunque a offrire una buona campionatura su sessant’anni di produzione. Molte le opere su carta, ma si tratta di un supporto che esalta la straordinaria freschezza del gesto e del segno di Twombly: se Picasso dichiarò di avere impiegato una vita per imparare a disegnare come un bambino, il suo collega americano comprese subito che la liberazione dalle convenzioni accademiche era per lui il primo passo. Allo scopo, disegnò e dipinse al buio o con la mano sinistra; inoltre, tra la fine degli anni Cinquanta e gli anni Sessanta, l’uso di pastelli a cera, matite e penne a sfera (gli strumenti con i quali i bambini appunto «scarabocchiano») esalta la spontaneità di quei grovigli o grumi segnici attraverso i quali si consumava l’estrema stagione dell’Espressionismo astratto. Un tramonto (o se vogliamo un compimento) che si compiva lontano sia dalla terra che aveva celebrato i trionfi di De Kooning, Franz Kline, Motherwell e Pollock, artisti che in misura e modi differenti avevano influenzato il giovane Twombly, sia dagli stessi loro intenti di liberare una volta per tutte l’arte americana dai debiti con quella europea. Dal 1959 Twombly si stabilisce a Roma, e in Italia, tra lo studio di via Monserrato e quello di Gaeta, si compirà tanta parte di una ricerca pittorica che, se delle esperienze americane conservava la visione delle fotografie di muri coperti di graffiti scattate da Aaron Siskind, si nutriva del mito e della storia mediterranei. La mostra veneziana spazia sulle diverse tipologie attraverso le quali si manifestò il segno di Twombly: nelle «figure» totemiche di «Landscape» del 1951, certo debitrici a Franz Kline; nell’automatismo del gesto a matita su fondo bianco di «Panorama» del 1955; nei collage del 1959; nelle cancellature a palinsesto di «Ilium (One Morning Ten Years Later)» del 1964-2000; nei grafemi bianchi che in forma di «otto» istoriano la superficie nera di «Untitled (New York City)» del 1968; nelle lettere, nei numeri e negli appunti in un «Untitled» dell’anno successivo; nelle macchie di «Leda and the Swan» del 1980; nei «Paesaggi» del 1986, i cui verdi e azzurri rimandano a un naturalismo sino ad allora non ancora sperimentato da Twombly (che con opere di quel tipo partecipò alla Biennale del 1988), preludio al ciclo «Gaeta Set»; sino alle grandi efflorescenze che scandiscono i dipinti dell’ultimo periodo. Erotismo e malinconia s’intrecciano in questo percorso alla ricerca di un’Arcadia perduta e ricomponibile soltanto a frammenti, tra graffiti da latrina e una natura sontuosa. Indissolubile, in questa vicenda, il legame con l’Antico, spiega Philip Larratt-Smith, rivissuto non nel segno di Winckelmann ma piuttosto di Fellini, laddove l’erotismo coincide con il piacere per la materia pittorica e la classicità approda a un voluttuoso gusto barocco che trionfa anche nella scultura, assemblata con eterogenei frammenti (quasi «materiale di spoglio» della quotidianità) ora unificati dal colore bianco a imitazione del marmo ora ricoperti dalla brillante policromia di «Turkish Delight».
 
 

 

Franco Fanelli, 27 aprile 2015 | © Riproduzione riservata

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