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Elisa Carollo
Leggi i suoi articoliNel corso di pochi anni di carriera in rapida ascesa, l’artista Kennedy Yanko (St. Louis, 1988) ha sviluppato un linguaggio artistico unico che fonde in corpi scultorei ibridi l’eredità dell’astrazione americana, dell’Arte Povera e del ready-made, ed eleganti riferimenti alla statuaria classica. L’astrazione scultorea di Yanko è infatti estremamente fisica e sensuale, ma allo stesso tempo pare aspirare a una dimensione piú spirituale ed esistenziale della materia, esplorandone le possibilità alchemiche da cui possono derivare nuove forme. L’attenzione nei confronti di Yanko si è fatta sempre più evidente durante la pandemia, e in particolare con la sua indimenticabile presentazione al Rubell Museum durante Art Basel Miami nel 2021, evento che ha innescato un aumento vertiginoso dei prezzi.
Questo mese americana consolida il proprio momentum con una doppia mostra a New York da Salon 94 e James Cohan. Mentre la mostra di Cohan segna un nuovo capitolo, dopo l’annuncio della galleria di rappresentarla e lo stand personale all’ultima Frieze London, la mostra di Salon 94 offre invece uno sguardo retrospettivo sull’evoluzione della sua pratica. Abbiamo incontrato l’artista per scoprire cosa queste mostre ci dicono della sua arte delle direzioni che sta prendendo.

Installation view della mostra da Salon 94. Courtesy of Salon 94. Photo: Phoebe d'Heurle. Courtesy James Cohan
Negli anni ha esplorato possibilità inedite di astrazione attraverso i vari media, confrontandosi con materiali trovati che riattivi nella vitalità del colore, nel processo e nella forma. Può dirci qualcosa sul processo che le permette di condurre queste materie amorfe o in disuso ad assumere una forma e a diventare una nuova immagine?
Ritengo di lavorare all'interno di un filone di pittura, scultura e tracciamento di gesti pittorici. La sostanza primaria è sempre la pittura - lavoro come una pittrice, anche se non uso il pennello. In particolare, nell’ultimo decennio ho sviluppato quelle che chiamo “pelli di pittura,” ovvero: strati di pittura essiccata che stacco e modello in fogli simili a teloni. Questi diventano elementi scultorei che poi applico a forme simili a collage realizzate con metalli trovati. In questo processo, rispondo sempre a ciò che ho davanti, dalle scelte cromatiche alle composizioni che emergono. C'è un dialogo e, per molti versi, è una danza in cui sono i materiali a condurre. Raramente inizio con un'idea fissa. Invece, una volta che mi trovo all'interno dell'opera - una volta che sono fisicamente impegnata con le pelli e il metallo - lascio che siano i materiali a guidare la forma finale. Anche quando magari ho un'intenzione iniziale per un movimento, un gesto, il piú delle volte i materiali mi portano altrove, e di solito è meglio così. Si tratta di abbandonarsi all'intelligenza incorporata nei materiali stessi.
Anche le parti metalliche che utilizza sono scelte istintivamente nell’essere poi accoppiate e abbracciate da queste sensualissime «pelli di pittura». So che in realtá lei è molto precisa in questa scelta (di quelle che considera come un partner di una danza). Può dirci qualcosa di più su questo aspetto?
Sì, la scelta é molto specifica - ma non in termini di perfezione. Si tratta piuttosto di qualcosa che si sente giusto. Rimane qualcosa di comunque estremamente intuitivo: non si tratta di trovare la forma perfetta, ma di risuonare. E questo processo è per me una sorta di scoperta. Quando sono al deposito di metalli, a scavare tra mucchi di pezzi scartati, non sono sempre sicura di quello che sto cercando finché non lo trovo. È una cosa istintiva, come un appuntamento - capisci che è il partner giusto quando lo senti.
Abbiamo fatto riferimento a una danza, per descrivere il suo rapporto con i materiali. Di fatto c’è un aspetto performativo che emerge nella sensualità delle sue opere, che deriva da un profondo coinvolgimento innanzitutto fisico con la materia e le sue forze attraverso un'intensa pratica processuale. In questo senso, queste opere traducono la fluidità e la plasticità della sensazione, la così detta «vis elastica». Può dirci qualcosa di più sugli aspetti tattili e fisici del suo lavoro, sia in termini di processo che di reazione sensoriale che intendono stimolare nell’osservatore?
Il mio rapporto con la performance è emerso inaspettatamente, ma il mio background in pratiche come il Qigong, lo yoga, la filosofia e la psicologia ha alla fine finito a plasmare il mio approccio alla creazione. Per me il processo è profondamente interiore: nasce dal corpo, dalle sensazioni e soprattutto dal desiderio. Il desiderio, per me, è un mezzo, ma anche uno strumento e una bussola. Questo tipo di impegno energetico e fisico con il materiale è ciò che comunque guida alla fine il mio lavoro e credo che sia qualcosa che gli spettatori possono sentire a livello viscerale. La tattilità, il movimento, la spinta e l'attrazione tra forma e forza: tutto proviene da questo luogo interno e si traduce direttamente nel modo in cui l'opera viene vissuta.
Leggendo il saggio di Gilles Deleuze su Francis Bacon, ho trovato alcuni passaggi che risuonano con la sua pratica: in qualche modo, anche nel suo lavoro, la struttura, la figura e il contorno collassano nel colore. Abbracciando l'essenza essenzialmente caotica ed entropicamente fluida della realtà, le sue opere riguardano più un fatto e un evento che la figura di un'immagine - una coagulazione di energie e tensioni, una rivelazione del corpo come organismo, come materia viva soggetta a forze di continua mutazione che impediscono qualsiasi possibilità di individuazione definitiva…
Penso che questo sia il significato - e in realtà il potere - dell'astrazione. Per me l'astrazione è una guida. Non è qualcosa che si definisce o si fissa. Ti guida. Ti chiede di seguire, di osservare senza bisogno di una comprensione immediata. Questo è il nucleo di ciò che sto lavorando, soprattutto nella mostra «Epithets» da James Cohan. Il nostro cervello è programmato per categorizzare, collocare, definire: è così che diamo senso al mondo. Ma credo che l'evoluzione, e la coscienza stessa, inizino quando diventiamo consapevoli di questo cablaggio. Quando possiamo assistere in tempo reale e scegliere invece di stare in osservazione. Di mantenere lo spazio e lasciare che l'oggetto, la persona, l'opera d'arte, l'ambiente si riveli nel tempo, alle sue condizioni. È lì che avviene la vera espansione. È qui che inizia la nuova comprensione, quando resistiamo al bisogno di fissare qualcosa al suo posto e ci permettiamo invece di sperimentarlo in movimento.

Kennedy Yanko, « Retro Future», 2025. Courtesy of Salon 94. Photo: Phoebe d'Heurle. Courtesy James Cohan
In realtà te hai ha un passato tanto nell'arte performativa quanto poi nella pittura. Nella sua mostra al Salon94, «Retro Future», questi diversi momenti della sua opera, collassano in una sintesi immaginaria di passato, presente e futuro. Può dirci qualcosa di più delle scelte che hanno guidato le opere in mostra?
Per la mostra del Salon 94, mi sono concentrata sul gioco delle sgocciolature e tocchi di colore e pittura direttamente sulle pelli, esplorando ancora più a fondo il rapporto tra pigmento, materiale e forma, e la loro fusione. Volevo creare uno spazio che riflettesse sia dove sono stato sia dove sto andando. Quando penso all'architettura di domani, a ciò che significa creare in questo momento, non mi sembra che si tratti di costruire qualcosa di completamente nuovo o futuristico nel senso tipico del termine. Si tratta piuttosto di perfezionare ciò che già esiste, di ampliare l'antico anziché cancellarlo. Non si tratta di costruire un nuovo imponente monumento di vetro, ma di dare nuova vita a qualcosa di fondamentale. Molte delle opere in mostra riflettono questa idea.
La mostra da James Cohan, «Epithets» pare invece piuttosto una prova di questa sua volontà di abbracciare la natura oscura della materia e la sua evoluzione caotica, come un modo per partecipare al mistero della creazione. Ha descritto la mostra come una esplorazione degli aspetti piú oscuri e reconditi del sé. Qui, presenze scultoree in bilico tra una carcassa e un esoscheletro emergono nello spazio come una sorta di simulacri scultorei, immersi in una drammatica penombra. Ci può dire di più dei termini che hanno ispirato invece questo nuovo corpo di lavori?
Lo mostra da James Cohan è molto più cupo. Il lavoro è pesante e crudo, è impegnativo. Proviene da una parte di me stesso con la quale mi sono confrontata attivamente. Contiene il mio dolore, la mia vergogna, la mia bruttezza, la mia angoscia. L’ho intitolata «Ephiteth» che significa dare un nome, definire - ma in questo caso si tratta piuttosto di resistere all'impulso di definire. Credo che l'astrazione sia qualcosa a cui abbandonarsi: non è qualcosa a cui imporre un significato, ci si lascia trasportare. E così facendo, credo che si apra molto più spazio per l'esperienza, per l'espansione, per la comprensione.
Ho sempre pensato che il suo tipo di ricerca abbia qualcosa anche di profondamente junghiano nel modo in cui esplora una sorta di dimensione alchemica dei materiali, portando alla luce e facendo riemergere il loro logos, l'immagine simbolica rivestita o sepolta all'interno della materia, confrontandosi al contempo con forze ed energie insite al suo interno. Esiste un rapporto con Carl Jung?
C'è sicuramente qualcosa nel suo pensiero che risuona davvero con me, in particolare l'idea che l'ostacolo sia il condotto verso la coscienza - che non si può accedere veramente alla coscienza senza incontrare il dolore. Questo concetto mi è rimasto impresso e credo che ci sia molto da dire su questo: sul valore di fare spazio alla sofferenza, di permettere a se stessi di sedersi con essa piuttosto che aggirarla. Nel mio lavoro, e in realtà nella mia vita, ho scoperto che i momenti di disagio, di sfida, di ombra, sono spesso quelli da cui provengono le intuizioni più profonde. Le idee di Jung sulla trasformazione attraverso il confronto e l'impegno con l'inconscio sono molto in linea con il mio modo di affrontare il processo e il senso di sé.
In concomitanza con la sua mostra al Salon 94, ha curanto anche una collettiva con artisti che l'hanno ispirata o che sono vicini al suo pensiero: ce ne puoi parlare?
Quando ho pensato alla mostra curata, mi sono chiesta: quale sarebbe la stanza dei miei sogni? Chi sono i maestri materialisti? Chi sono gli artisti che colpiscono su tutti i fronti - esecuzione, materialità, inventiva - che sono in una lega a sé stante e hanno una grande mano nel fare? Questa è stata la mia domanda guida nel curare la mostra. Ho voluto riunire artisti le cui pratiche parlano profondamente dei miei valori e che hanno spinto i materiali in modi che sembrano allo stesso tempo rigorosi e liberi. È una sorta di omaggio, ma anche una conversazione tra questi autori e le domande che mi pongo nel mio lavoro.