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Il prezzo dei quadri non ha certezza (salvo opinione contraria del papa)

Il prezzo dei quadri non ha certezza (salvo opinione contraria del papa)

Guido Rossi

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Le diverse strutture dei sistemi economici, da quelle del mondo antico a quelle del feudalesimo, del paleocapitalismo e del capitalismo maturo, hanno mantenuto costante e pressoché identico il rapporto fra opere d’arte e denaro.

Le osservazioni che ho scritto sul primo numero di questo giornale non sono certo, nonostante le sdegnose proteste, né peregrine né contingenti. Infatti, le identiche caratteristiche che ho descritto in via generale possono essere confermate nelle documentate vicende sia attuali sia remote di quel commercio. È dunque opportuno, laddove almeno la documentazione sovvenga sicura e inconfutabile, di riferire casi e materiali antichi e moderni. Vorrei riservare la trattazione dei casi nuovi e personali alle interpellanze che il mio articoletto enunciativo pare abbia già sollevato: trattazione che varrà quale risposta.

Qualche vertenza antica servirà invece a chiarire che il commercio dell’arte, in mancanza oggettiva (piaccia oppure no) di un mercato ordinato, ha sempre avuto in ogni sistema economico identiche caratteristiche e analoghe incertezze nel rapporto con il prezzo della vendita o dell’acquisto. Riferirò qui di una controversia giudiziaria sorta a Bologna nel 1723 e di cui ho rinvenuto parte degli atti, stampati con rara e preziosa eleganza. La causa giudicata dal competente Tribunale ecclesiastico, la Curia arcivescovile di Bologna, riguarda la vendita di quarantatré dipinti da parte dell’abate Salvatore M. Rangoni al conte Nicolò Aldrovandi per duemila e duecento scudi. Si tratta di quadri di autori famosi, dal Parmigianino al Correggio, al Tiziano, ai Carracci, acquistati a rate. L’Aldrovandi, secondo quel che risulta negli atti del processo, cambiò alcune cornici, fece restaurare qualche quadro e con grande ostentazione li dispose «nelle Prelatizie Sue camere».

Dopo due anni, tuttavia, il compratore che già ha pagato tre rate rifiuta il pagamento della quarta rata e inizia una causa per lesione, sostenendo che il prezzo pattuito era esorbitante e che pertanto l’equilibrio degli interessi fra le parti imponeva che il contratto fosse riformato per quel che riguardava il prezzo. Non molto diversa procedura si sarebbe seguita ai nostri giorni da parte del compratore, il quale, infatti, inizia la causa allegando una perizia sul valore dei quadri. Purtroppo non ho rinvenuto la perizia di cui è ampia menzione e commento nella Prima comparitio dell’8 giugno 1723, una sorta di comparsa di costituzione e risposta. L’interesse della perizia è notevole perché il perito è il cremonese Donato Creti, pittore assai noto a Bologna.

La figura dell’artista rinomato, amico dei potenti, trafficante in perizie, non è dunque nuova. E Donato Creti non è certo di quelli che non hanno lasciato il loro nome nella storia dell’arte. Di tale perizia si scrive che «è viziata, piena di lacune e di errori, più che sbagliata e i prezzi indicati a sì vile e minima stima, quasi che i dipinti fossero copie fatte da pittori volgari» («peritiam vitiatam, fallaciis repletam, erroribusque involutam, plusquam erroneam et pretia ad tam vilem, minimamque aestimationem, ac si Pìcturae essent Copiae formatae a Pictoribus vulgaribus»). Non basta. Nella Secunda comparitio, redatta circa un mese dopo, in contestazioni di altre quattro perizie prodotte dal compratore si passa al più grossolano gergo forense e si ricorre ai più volgari epiteti.

I periti (Franceschino, Magnavacca, Cavazzano e Mazzone) vengono definiti «pretesi professori», «presunti periti» e persino deliranti quando, per essere dei provinciali bolognesi, pretendono di poter giudicare opere straniere. Nel documento «Informazione fedele con tutta la storia del fatto» del 12 dicembre 1723, una sorta, diremmo oggi, di conclusionale, il lessico è ancor più severo. Le perizie sono definite «surrettizie, a deposizione clandestina, fatte a capriccio... fatte da persone dipendenti dai signori Avversari... con sinistri mezzi», e così via. Ma non v’è dubbio che il documento di maggior pregio è quello intitolato «Incontrastabili, ed evidentissime Dimostrazioni, e fondate e inconcusse, Ragioni, con piene prove di Fatto, che la Pittura, generalmente parlandosi, è inapprezzabile, e che tanto sol vale, quanto, si fà, e si vuole, che vaglia, ne mai circa i di Lei prezzi può darsi lesione». Documento, dicevo, di maggior pregio anche perché le argomentazioni in esso contenute sono state accolte dal Tribunale ecclesiastico di prima istanza. Si tratta di una specie di summa sul non mercato dell’arte.

Val la pena di riportarne alcuni passi. «Non può darsi lesione in un Contratto, se non v’è campo, e luogo non rimane, a potersi giudicare, l’effettivo Valore esistente della Cosa, che vien’ contrattata. La Pittura trovasi totalmente di tale requisito mancante, non essendo, che una dipinta Dimostrazione, la quale, a dover restare Stimata, non ha per questo in Sé alcuna essenziale, annessa, inseparabile, Constituzione incontrovertibile dell’Essere Suo Reale ma dipende sol tanto il di Lei Prezzo dalla compiacenza, che introduce in Chi la rimira, e quale più, o meno affezionandosi, viene quindi altrettanto a formare sopra di essa il concetto, per determinare il pagamento». Assai istruttivo è il paragone con le pietre preziose (le gioie) che si possono invece stimare. E non è un caso forse che per i diamanti esistesse già una borsa, cioè un mercato nel senso tecnico del termine? «Pieni di dubbietà sono i Giudicii sopra le Pitture; sole scaturiscono dissensioni dai pareri dei Professori, deludenti o delusi; pertanto il prezzo de’ Quadri non ha certezza, né misura, né Legge, ad essere circoscritto, né verun fondamento a rimanere giudicato».

«Un Quadro può vendersi a vilissimo prezzo, e lo stesso Quadro può rivendersi, ora più, ora meno, e finalmente essere comperato con grandissimo sborso, dove che alla prima fu quasi nulla pagato». «Altre Pitture pur’anche di mediocre Pennello sono valutate assai, d’ognora chè nel facoltativo, e dispotico dei Contraenti la sorte possa effettuare, col Loro sentimento d’accordo il Reciproco Contratto, mediante cui quelle tali Pitture, benché d’inferiore mano, piaccia nonostante, di volersi pagare, al pari delle Opere dei più famosi Artefici».

Gli esempi sono numerosissimi e spaziano dall’arte antica a quella moderna. La conclusione è una sola: nella compravendita dell’opera d’arte è esclusa ogni lesione. Non solo dunque non c’è il mercato, ma non v’è neppure la protezione giuridica che esiste nel normale commercio di altri beni, poiché anche la disciplina della compravendita è nel nostro campo assai anomala. Io per ora non ho altri commenti da aggiungere. Anche perché non mancheranno quelli di qualche qualificato «operatore» o «fruitore» del cosiddetto mercato o magari di qualche «esperto». Ma questa volta sono avvertiti: contro la sentenza del Tribunale ecclesiastico di Bologna non v’è che l’appello al Sommo Pontefice, così come fu appunto proposto dal conte Nicolò Aldrovandi, condannato in prima istanza a pagare il prezzo pattuito. Quale sia stata la sentenza del Papa però non mi è dato conoscere.
Guido Rossi in «Il Giornale dell’Arte», n. 3, luglio 1987
 

Guido Rossi, 08 ottobre 2017 | © Riproduzione riservata

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