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«Elisabeth et moi dans un cafe à Montparnasse, Paris, 1931» di André Kestész © Donation André Kertész, Ministère de la Culture (France), Médiathèque du patrimoine et de la photographie, diffusion RMN-GP

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«Elisabeth et moi dans un cafe à Montparnasse, Paris, 1931» di André Kestész © Donation André Kertész, Ministère de la Culture (France), Médiathèque du patrimoine et de la photographie, diffusion RMN-GP

Il mitico Kertész a Camera

Nell’istituzione torinese oltre al padre della fotografia (per Brassaï e Carteir-Bresson) quattro giovani dialogano con Alinari

Olga Gambari

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Camera - Centro Italiano per la Fotografia prosegue il progetto dedicato alla fotografia italiana e internazionale, tra storia e contemporaneità. Tre le nuove mostre: un grande omaggio alla figura di André Kertész, un dialogo tra giovani fotografi e l’Archivio Alinari e un progetto interattivo che vuol coinvolgere ogni tipo di pubblico nell’esposizione multimediale permanente «La storia della fotografia nelle tue mani» allestita nella Manica lunga, tra immagini, contenuti digitali, video e testi scritti fruibili anche dalle persone cieche o ipovedenti.

L’antologica «André Kertész. L’opera 1912-1982», a cura di Matthieu Rivalline e Walter Guadagnini, è stata realizzata in collaborazione con la Médiathèque du patrimoine et de la photographie (MPP) di Parigi, istituto che conserva gli oltre centomila negativi e tutti gli archivi donati dal fotografo allo Stato francese nel 1984. Un patrimonio che racconta la vita e il percorso di un mito assoluto della fotografia, da Budapest a Parigi, a New York, attraverso il cui sguardo scorrono decenni di Europa e di Stati Uniti, di vicende storiche e personali, umanità e luoghi incontrati e fissati con un realismo che si smaterializzava in visioni surrealiste dal valore simbolico e universale.

Kertész (Budapest 1894-New York 1985) è sempre stato riconosciuto come una figura di grandissima ispirazione da artisti e fotografi, il proprio maestro per Brassaï, e il padre della fotografia contemporanea per Henry Cartier-Bresson che, in una sua celebre frase, disse: «Tutto quello che abbiamo fatto, o che abbiamo intenzione di fare, Kertész lo ha fatto prima». In mostra 150 fotografie all’insegna di quella sua arte della spontaneità, di quella ricerca degli istanti di grazia che «fissano le caratteristiche delle cose», come spiegava, al di là di temi politici o sociali. «Fotografo il quotidiano della vita, quello che poteva sembrar banale prima di avergli donato nuova vita, grazie a uno sguardo nuovo. Amo scattare quel che merita di essere fotografato, il mondo quindi, anche nei suoi squarci di umile monotonia».

Sono già i suoi primi scatti realizzati sul fronte durante la prima guerra mondiale, dove non si sofferma mai sui momenti cruenti ma su ciò che sta attorno, che danno avvio quel diario visivo diurno e notturno che lo seguirà tutta la vita. Poi a Parigi, dove fissa le strade della metropoli, i suoi parchi e i tetti, la riva della Senna e le nature morte realizzate nello studio del pittore Piet Mondrian, e dal ’36 a New York, con le sue grandi architetture, il suo skyline, il porto e le immagini della casa dell’architetto Philip Johnson. Insieme una galleria di autoritratti e alcune ricerche come le «Distorsioni», giochi ottici nati negli specchi dei luna-park che compresero anche una serie di nudi femminili.

«Nuova Generazione. Sguardi contemporanei sugli Archivi Alinari», invece, è un progetto di Camera e Faf Toscana-Fondazione Alinari per la Fotografia, a cura di Giangavino Pazzola e Monica Poggi, che commissiona a giovani artisti riflessioni fotografiche sul tema dell’archivio. I quattro fotografi sono Matteo de Mayda (1984, vive a Venezia), il cui lavoro è incentrato sul reportage e sulle cause sociali e ambientali; tra i suoi progetti «The first time», dedicato ai Paesi che partecipano per la prima volta ai Mondiali di calcio; Leonardo Magrelli (1989, vive a Roma): la consapevolezza della natura ibrida e ambigua delle immagini è un sottotesto costante del suo lavoro, come spiega, che varia di volta in volta; Giovanna Petrocchi (1988, vive tra Roma e Londra), che combinando fotografie personali con immagini trovate e collage fatti a mano con processi di stampa 3D crea paesaggi immaginari ispirati a dipinti surrealisti, realtà virtuali e culture antiche; e Silvia Rosi (1992, vive tra Londra e San Cesario), i cui iconici e pittorici ritratti colgono i soggetti di spalle, come identità dove ciò che appare e ciò che è celato sono complementari.

Tutti e quattro sono stati selezionati fra gli autori che negli anni hanno preso parte al progetto «Futures Photography». Le loro immagini indagano l’eredità e il patrimonio costituito dagli archivi storici pubblici e privati, e insieme l’attua- lità del concetto di archiviazione, anche in relazione al futuro. Ne è un esempio l’autoritratto di Silvia Rosi e il ritratto di giovane donna di Wanda Wulz del 1928, che diventano un unico dittico di sagome e di sguardi speculari attraverso il tempo. Lo scorso 19 ottobre, nella Manica lunga del museo, è stato inoltre inaugurato il nuovo percorso multimediale permanente «Open Camera: la storia della fotografia nelle tue mani», grazie al finanziamento del Pnrr nell’ambito dell’inclusività, digitalizzazione, abbattimento delle barriere fisiche, innovazione e varie altre voci comprese nel piano NextGenerationEU. Curato da Cristina Araimo e Monica Poggi, è una linea del tempo punteggiata di pannelli tattili, contenuti digitali, qrcode, video con descrizioni nel linguaggio dei segni e testi in braille, per raccontare la storia della fotografia dall’invenzione di Louis Daguerre alle immagini più recenti, comprese quelle prodotte dai software che si basano sull’Intelligenza Artificiale.

«Self portrait» (2016) di Silvia Rosi

«Elisabeth et moi dans un cafe à Montparnasse, Paris, 1931» di André Kestész © Donation André Kertész, Ministère de la Culture (France), Médiathèque du patrimoine et de la photographie, diffusion RMN-GP

Olga Gambari, 31 ottobre 2023 | © Riproduzione riservata

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