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Redazione GDA
Leggi i suoi articoliLa presa di posizione di Luca Rinaldi, soprintendente per i Beni architettonici di Torino, contro il posizionamento di un «vagone evocativo» nella centralissima piazza Castello davanti a Palazzo Madama, per l’intera durata della mostra su Primo Levi (22 gennaio-6 aprile), ha scatenato un enorme impatto mediatico.
Dottor Rinaldi, che cosa l’ha indotta a intervenire? Non aveva previsto le reazioni, compresa la sconfessione dello stesso ministro?
Piazza Castello e Palazzo Madama sono tutelati con specifici decreti ministeriali. Il nostro Ufficio vaglia e approva i progetti di installazioni. Stiamo lavorando ad esempio per l’Ostensione della Sindone e per i padiglioni torinesi dell’Expo. La prima delle tante anomalie di questa vicenda, per certi versi surreale, è che il Comune, malgrado la richiesta del Centro Primo Levi fosse stata inoltrata a novembre, ha mandato una mail alla mia posta personale solo due giorni prima dell’installazione, quando già era stato tutto deciso, pregandomi di dare un parere favorevole. Ho subito contattato il Centro Primo Levi e abbiamo concordato una permanenza limitata del vagone.
Lei ha imposto il limite dei soli 15 giorni, ma quella piazza è usata continuamente per gli scopi promozionali più svariati, dal cioccolato alle auto.
Ho calcolato una settimana prima e una dopo il Giorno della Memoria, il 27 gennaio, per consentire le celebrazioni in Piazza Castello. Dopo, il vagone sarebbe stato spostato a lato di Palazzo Madama per consentire una migliore agibilità della piazza per altre manifestazioni.
In un’intervista su la «Repubblica» l’ha definito un baraccone, una pagliacciata.
Non ho rilasciato alcuna intervista sull’argomento. La giornalista ha estrapolato da una lunga conversazione privata alcune parole e ha costruito il pezzo senza il mio consenso. Le persone dell’ambiente hanno capito subito. Per il vagone comunque rimando all’articolo di Sergio Luzzatto su «Il Sole 24 Ore» del 2 febbraio, che ha stroncato l’installazione, rimarcando che, non trattandosi certo del vagone originale di Primo Levi, siamo di fronte all’«ennesimo pedaggio pagato oggidì, e più che mai nel Giorno della Memoria, alla cassa della lacrima facile».
Il ministro Franceschini ha parlato di «carro piombato».
Macchè: è un vagone pubblicitario che va alle fiere di paese, simile ad altre decine di migliaia che hanno circolato fino a pochi anni fa in Italia. Questo ha preso parte ai festeggiamenti dei 150 anni della Torino-Susa e nel 2008 al convoglio storico «Nelle terre di Don Camillo e Peppone», come si legge nel sito del Museo Ferroviario. È una trovata pubblicitaria, che nulla aggiunge, e anzi offusca, il rigore della mostra dello scrittore. Non si può scherzare con la storia. Ho visitato due volte Auschwitz e l’anno scorso il Museo di Yed Vashem a Gerusalemme. Il valore di queste testimonianze è l’autenticità. Non mi commuovo certo di fronte a un banale vecchio carro bestiame, che poi rimane per tre mesi nella piazza principale di una città che ambisce a essere d’arte.
Però poi ha fatto retromarcia.
La dichiarazione del ministro, e del sindaco di Torino, che purtroppo non sapevano che io stesso avevo permesso l’installazione proprio per l’alto significato sociale, hanno fatto scivolare il dibattito sul piano etico-morale. In quindici anni di dirigenza in varie sedi ho rilasciato decine di interviste e so come comportarmi. A questo punto i giornalisti, ma anche politici, associazioni e cittadini ugualmente disinformati, si erano scatenati. Ho ricevuto decine di mail di insulti, di cui il più blando era «fascista»; sono finito sui principali telegiornali nazionali, additato come negazionista. La mia posizione non è stata mai correttamente riportata. Un incubo. Pensi che un sito francese, riprendendo quello della Comunità Ebraica, mi ha fatto una caricatura infamante, alla «Charlie Hebdo».
A quale motivo crede sia dovuta questa campagna di stampa così ostile?
L’acrimonia della stampa locale è stata davvero singolare. In realtà nessuno conosce i limiti dell’azione della Soprintendenza. Mi hanno accusato di aver approvato cartelloni pubblicitari su cui non ho alcuna competenza, di essere responsabile delle buche della pavimentazione, ma anche di bloccare lo sviluppo della città. Ma ho preso posizioni che avrebbe assunto, spero, qualsiasi altro collega. Sappiamo però delle difficoltà delle Soprintendenze, specie quelle architettoniche, che sulla carta hanno un grande potere di interdizione sulle trasformazioni urbane e del territorio, e che sono sottoposte a pressioni terribili. Basta leggere le cronache, le polemiche a Napoli, Roma, Venezia, Trieste, Bologna e in altre città. Rileggo spesso le vicende degli uffici negli anni eroici, Cinquanta e Sessanta ma anche sotto il fascismo. Ora come allora c’è chi ci considera un inutile orpello burocratico, chiede un nostro sostanziale ridimensionamento. Se però non possiamo mantenere una funzione di critica attiva, naturalmente aperta e collaborativa, non capisco che cosa ci stiamo a fare.
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