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Elena Goukassian
Leggi i suoi articoliLa vita lavorativa dei custodi dei musei spesso è banale e straordinaria allo stesso tempo. Passano la maggior parte del tempo in piedi in un angolo, con lo sguardo fisso nel vuoto, sulle opere d’arte o sulle persone che affollano la galleria, rimproverando i bambini che cercano di arrampicarsi sulle sculture e rispondendo alle domande su dove si trovano i bagni. Ma i custodi hanno anche molto tempo per pensare e per instaurare relazioni uniche, sia con le opere d’arte su cui vigilano ogni giorno, sia tra di loro.
Patrick Bringley ha lavorato come assistente alla visita al Metropolitan Museum of Art di New York per più di dieci anni, un’esperienza che ha descritto nel libro All the Beauty in the World: The Metropolitan Museum of Art and Me (240 pp, Simon & Schuster, New York 2023, $ 27.99), divenuto un best seller. Ora interpreta sé stesso in uno spettacolo off-Broadway dal medesimo titolo, vestito da custode del Met, e con la sua voce pacata e rilassante intrattiene il pubblico con racconti meditativi su visitatori senza scrupoli, coloriti retroscena sui suoi colleghi e, naturalmente, su alcune delle sue opere d’arte preferite.
«Dopo l’uscita del libro, racconta Bringley a “The Art Newspaper” ho iniziato a tenere conferenze nei musei d’arte e mi sono reso conto di non essere nervoso. Mia madre faceva l’attrice e mi piaceva stare sul palco davanti al pubblico per fare qualcosa di collettivo. Mi è sembrato naturale che il passo successivo della mia storia fosse uno spettacolo teatrale “one-man show”. So evocare ciò che si provava stando in piedi nelle gallerie».
All’inizio dello spettacolo Bringley mostra infatti in modo molto preciso come si appoggia al muro un custode di museo: «Mani unite, parte carnosa all’altezza del coccige. Gambe divaricate di circa 30 gradi. Caviglie incrociate, dice sul palco. Ho visto una foto di un collega centenario appoggiato in questo modo. La tecnica non è mai stata migliorata».
Questi deliziosi momenti dedicati al dietro le quinte di un museo (chi lo sapeva che un custode riceve 80 dollari all’anno per comprarsi dei calzini neri?) creano un legame con il pubblico, così come le vicende molto più personali che emergono nella narrazione. Negli 80 minuti dello spettacolo i tre fili conduttori del lavoro, dell’arte e della famiglia si intrecciano, creando un affresco completo delle esperienze di Bringley («Ho cercato di combinari gli elementi in modo equilibrato», spiega). Nel libro cita più di 100 opere d’arte; nella pièce teatrale invece si concentra su una dozzina, molte delle quali capolavori dei grandi maestri del passato. Brigley definisce i dipinti «finestre con cornici dorate» e sul palco questi scorci pittorici di un altro mondo appaiono proiettati su tre schermi giganti incorniciati, ideati da Dominic Dromgoole, ex direttore artistico del Globe Theatre di Londra, nonché regista di questo one-man show.
I tre schermi mostrano le opere d’arte a cui Bringley fa riferimento nel suo monologo, a volte per intero, a volte con ingrandimenti di dettagli sorprendenti. Mentre l’autore-attore filosofeggia sulle diverse visioni del mondo offerte da queste «finestre», alle sue spalle appare il «Ritratto di uomo» (1515 circa) di Tiziano, il cui volto gli ricorda suo fratello Tom, morto di cancro a 26 anni. (Bringley ha iniziato a lavorare al Met poco dopo, in cerca di pace e solitudine).
Se le storie personali di Bringley e quelle delle opere d’arte con cui è a contatto quotidianamente nel suo lavoro costituiscono la spina dorsale del suo spettacolo, i momenti più memorabili e coinvolgenti sono quelli in cui racconta i suoi incontri con i colleghi assistenti alla visita. Al Met i custodi in servizio sono circa 500 e il gruppo è variegato almeno quanto la stessa New York City. Bringley stima che circa il 60% di loro sia nato fuori dagli Stati Uniti. «Parliamo tutte le lingue. Sappiamo fare tutto, dice a un certo punto dello spettacolo. Conosco custodi che hanno lavorato nei campi, costruito case, guidato taxi, pilotato aerei di linea, fatto il poliziotto, lavorato come giornalisti, insegnato all’asilo, comandato una fregata nel Golfo del Bengala. È questo il bello dei cosiddetti lavori non qualificati: a svolgerli sono persone con una fantastica gamma di competenze».
Non a caso la storia sul suo periodo al Met che Bringley preferisce non riguarda un dipinto o un visitatore del museo, ma uno dei suoi colleghi, Joseph Akakpousa, trasferitosi a New York dal Togo, dove era un dirigente di banca, dopo essere scampato per un soffio a un attentato. I due colleghi hanno lavorato insieme nell'Astor Chinese Garden Court, un giardino della dinastia Ming con all’ingresso un’iconica Porta della Luna. Uno spazio straordinario in cui imbattersi nel mezzo di un enorme museo, il preferito di Akakpousa. Anni dopo, alla sua cena di pensionamento, Akakpousa ha mostrato a Bringley la foto di una casa che stava costruendo in Ghana, dove intendeva trasferirsi per alcuni mesi all’anno: l’ingresso era identico al «Moon Gate» del Met.
«Ecco a voi un ragazzo americano che parla con un uomo americano originario del Togo di un giardino cinese sulla Fifth Avenue a New York, che sta costruendo in Ghana, racconta Bringley sul palco. E questo è normale. È il piccolo mondo di cui ho il privilegio di far parte. E, naturalmente, è anche il grande mondo di cui tutti facciamo parte». Alla prova generale finale della sua opera teatrale Bringley ha invitato tutti i custodi del Met: «Ero orgoglioso, conclude, che vi fossero rappresentati alcuni aspetti della loro storia».
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