Una delle foto di Mario Cresci in mostra

Image

Una delle foto di Mario Cresci in mostra

Cresci: la fotografia come movimento

Nei 400 oggetti (tra fotografie, documenti e manufatti) esposti al MaXXI è come se il tempo lineare si curvasse e dal passato affiorassero dei frammenti di vita

Si parla di autoritratto quando l’artista è il soggetto della propria opera. Di solito la parte del corpo più importante, quella che certifica la presenza dell’artista e il fatto di trovarsi di fronte a un autoritratto, è il volto. Nella ricca mostra che il MAXXI di Roma dedica a Mario Cresci («Un esorcismo del tempo», a cura di Marco Scotini con Simona Antonacci, aperta al pubblico fino al primo ottobre), composta da circa 400 pezzi tra fotografie, documenti e manufatti, ecco che l’artista ligure, noto per la sua tendenza alla sperimentazione, contraddice la regola base dell’autoritratto rendendo il suo volto illeggibile.

Lo scatto è realizzato nel 1978 a Barbarano Romano, un paese in provincia di Viterbo, e fa parte di una delle serie più note di Cresci, «Interni mossi». Da un lato abbiamo la fissità degli ambienti e delle cose; dall’altro il divenire delle persone che ci vivono all’interno. Ed è questa frizione tra inerte e animato, una delle tante in mostra, a rendere unico questo autoritratto: nell’angolo di un soggiorno semplice ma curato, dove risaltano decine di volti messi in cornice o dietro le ante di una credenza, dove risalta il monoscopio Rai trasmesso in televisione, Cresci sta seduto su una sedia di legno; le mani poggiano sulle cosce, la posa è rilassata; insomma il corpo c’è, è lì, fino alla base del collo, ma poi svanisce. Letteralmente. Sfuma, evapora… è difficile stabilire con un unico verbo che cosa accade.

Scotini, nel testo in catalogo, si riferisce alla «magia del mosso […] che sottrae l’identità alle figure trasformandole in apparizioni temporanee, e lascia che a raccontare la loro vicenda sia il contesto, la messa a fuoco degli oggetti, degli spazi che li raccolgono». Questo effetto, da un punto di vista tecnico, è ottenuto tramite tempi d’esposizione lunghi, che non possiamo ridurre a puro gesto estetico; piuttosto siamo di fronte a una revisione dello statuto secondo il quale fotografare significa catturare l’istante decisivo. Nell’autoritratto, così come nell’intera produzione esposta in mostra, istante e durata coesistono. La fotografia abbraccia il movimento; genera dei cortocircuiti topografici e cronologici.
IMG2023062917030257_130_130.jpeg
Prendiamo per esempio un’altra opera, una qualunque delle serie realizzata a Martina Franca, in provincia di Taranto, nel 1979. A differenza delle serie più note (in particolare «Matera. Immagini e documenti», del 1975, o «Misurazioni», del 1979), nelle quali l’approccio antropologico rivendica la componente più analitica, più documentale, qui l’artista si concede all’ineffabile, a quanto c’è nascosto nelle pieghe della realtà. Lo stesso cantone di paese, dominato dalla calce, viene fotografato più volte. Ne risultano dittici o trittici spiazzanti, dove, di nuovo, la fissità dell’ambiente è sconvolta dallo spostamento degli oggetti (una finestra che si apre, una tenda che si abbassa), ma soprattutto dall’apparizione di poche persone, i cui volti si sottraggono o svaniscono.

Il tempo consequenziale, il tempo della storia, che si articola in una successione infinita di prima e di dopo, di cause ed effetti, nelle fotografie di Mario Cresci assume una connotazione organica, di risonanza fra elementi in apparenza discordanti: scene mai viste prima eppure familiari, che si affacciano come un evento momentaneamente dimenticato. Questo potere psichico, già presente nelle fotografie, è accentuato dal display espositivo, da non considerare come mero allestimento bensì come un’opera in aggiunta. Lo spazio della Galleria 5 del MAXXI, con i tipici piani inclinati, è attraversato da un sinuoso tramezzo che apre a una molteplicità di percorsi, alla ripetizione.

«Vedere è sempre un rivedere», afferma Cresci. E in effetti l’impressione è proprio quella, di assistere al ritorno delle cose pur restando fermi. Passando da una foto all’altra, da una serie all’altra, è come se il tempo lineare si curvasse, esattamente come suggerisce il tramezzo, e dal passato, o da epoche parallele alla nostra, affiorassero dei frammenti di vita. Quelle due bambine, che vediamo correre lungo una viuzza di Martina Franca, scappano dal bambino che sopraggiunge nel primo scatto o lo stanno inseguendo? Queste azioni sono collegate fra loro o appartengono a giornate diverse? A estati diverse?
IMG20230629170545178_130_130.jpeg
Durante la visita alla mostra, mi sono sorpreso a fantasticare sulle innumerevoli implicazioni meditative che questa, e molte altre opere, sono capaci di offrire. Infatti, per assurdo, mi sono chiesto se la continua sottrazione dei volti, delle identità, avesse a che fare innanzitutto con me. A forza di osservare queste presenze evanescenti, mi è venuto il sospetto che indagare chi sia la persona ritratta, ipotizzarne i tratti somatici, la storia, fosse soltanto il primo livello di accesso. E dunque: se così fosse, o meglio, se fosse soltanto così, e cioè un gioco di riconoscimento, queste opere prevederebbero una soluzione, proprio come avviene nei romanzi gialli. Al contrario, i volti mossi possono funzionare come uno specchio, un dispositivo che riflette la realtà in cui siamo immersi e che ci invita a capire non tanto chi siano gli altri, bensì chi siamo noi. Che relazioni abbiamo con i nostri oggetti, con l’ambiente che viviamo ogni giorno.

Ecco, la magia di Cresci, la sua capacità di «esorcizzare il tempo», sta proprio nel fondare l’immagine sul dubbio. Con questo non intendo dire che il risultato finale sia improbabile, tutt’altro: i soggetti delle fotografie, che nella mostra coprono un arco di circa due decenni, dal 1966 al 1988, e cioè il periodo che l’artista ha trascorso in Basilicata, sono così autentici proprio perché non cessano mai di trasformarsi. Mi riferisco ai «Ritratti reali» del 1972 (nei quali, grazie a tre scatti, si passa da un nucleo famigliare che regge le fotografie dei cari scomparsi, o lontani, alla fotografia di fotografie); ma soprattutto a «Come trasformare un piccolo cane in una bestia feroce». Realizzata nel 1970 a Tricarico, in provincia di Matera, l’opera si compone di due parti: nella prima vediamo un innocuo cane al guinzaglio; nella seconda vediamo le fauci, percepiamo l’aggressività. Basta avvicinarsi perché la nostra relazione con il soggetto, con il suo significato, cambi. E allora quel «come» presente nel titolo assume un ruolo imprescindibile, diventa manifesto, perché ci fa capire che ogni fotografia, per Cresci, è innanzitutto una riflessione sul linguaggio stesso: un modo unico di plasmare la realtà senza toccarla.

Una fotografia della seria «Martina Franca, Taranto» (1979) di Mario Cresci. Collezione Fondazione Studio Carrieri Noesi © Mario Cresci. Courtesy Lidia Carrieri

«Autoritratto» dalla serie «Interni mossi» (1978-79) di Mario Cresci. Cortesia Archivio Mario Cresci

Gabriele Sassone, 29 giugno 2023 | © Riproduzione riservata

Articoli precedenti

L’artista racconta la sua ultima mostra a Padova. Un viaggio a trama libera

Alcune riflessioni sul progetto di ricerca di Estelle Blaschke e Armin Linke ora alla Fondazione MAST di Bologna

L’opera completa dagli esordi con la fotografia tout court, passando per l’installazione, il video, la performance e l’arte pubblica

Cresci: la fotografia come movimento | Gabriele Sassone

Cresci: la fotografia come movimento | Gabriele Sassone