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Redazione GDA
Leggi i suoi articoliChe la politica sia un filo conduttore di questa Biennale di Venezia è garantito dall’identità curatoriale del suo direttore, Okwui Enwezor. Ma come rispondono i padiglioni nazionali al messaggio lanciato dalla mostra centrale del curatore nigeriano? Almeno quattro di essi riflettono le tensioni e le questioni sociopolitiche di stringente attualità dei rispettivi Paesi.
Israele: un bunker di pneumatici
L’installazione dell’artista di Tel Aviv Tsibi Geva nel padiglione israeliano, intitolata «Archeologia del Presente», non può che essere definita inquietante. L’esterno del padiglione è avvolto da mille pneumatici usati, legati insieme a creare una griglia «che forma uno strato protettivo di detriti intorno al padiglione», spiega la curatrice Hadas Maor. Questo, continua, «trasmette un senso di ansietà esistenziale e di urgenza». All’interno ci sono spazi riempiti di oggetti di recupero come porte, finestre e persiane, che fanno venire in mente un tipico boidem (ripostiglio) israeliano, o una soffitta. In mezzo alla confusione ci sono installazioni scultoree e dipinti. I detriti che li circondano riflettono uno «stato di consapevolezza modellato da un’estetica di sradicamento e immigrazione, prosegue la Maor. L’opera di Geva è pervasa dall’impossibile complessità della coesistenza israelo-palestinese ed è intrisa di una consapevolezza dolorosa, triste e pungente».
Armenia: memorie dallo sterminio
Il Governo armeno utilizza la Biennale per commemorare i cento anni dallo sterminio di 1,5 milioni di armeni per mano dei turchi ottomani durante la prima guerra mondiale. Tra i diciotto artisti partecipanti provenienti dalla diaspora armena c’è anche Sarkis Zabunyan, contemporaneamente presente nel padiglione turco. Adelina von Fürstenberg, curatrice della mostra che ha sede all’Isola di San Lazzaro degli Armeni, dice che, nonostante gli eventi del 1915, «la cultura armena è rimasta viva, facendo dei suoi artisti degli autentici cittadini del mondo». Tra gli artisti esposti, il newyorkese Aram Jibilian e Hrair Sarkissian di Damasco, il cui tema è incentrato sui discendenti degli armeni che sopravvissero alla conversione all’Islam.
Cile: omofobia di regime
Le fotografie di uomini travestiti nei bordelli di Santiago sono un improbabile specchio del Cile degli anni Ottanta, ma la serie di Paz Errázuriz «La Manzana de Adán» (il pomo di Adamo) del 1982-87 ritrae comunità represse sotto la dittatura di Pinochet (nella foto, «Evelyn, 1», 1982). La serie riflette uno dei più terribili momenti della storia sessuale e politica del Cile. Molti travestiti furono torturati e uccisi. «Non erano protetti da un sindacato o difesi da qualche ente di diritti umani», spiega Errázuriz, che alla Biennale espone una nuova edizione della serie con fotografie a colori, per la maggior parte inedite, esposte con opere di Lotty Rosenfeld.
Iraq: 2mila acquerelli contro l’Isis
Cosa non sorprendente, il padiglione iracheno riflette sull’ascesa dello Stato Islamico, noto a tutti come Isis, e gli effetti di anni di guerra e instabilità nel Paese. La Ruya Foundation for Contemporary Culture in Iraq, un ente non governativo, è responsabile del padiglione ospitato a Ca’ Dandolo. Il curatore Philippe van Cauteren, dallo Smak (il Museum Municipale di arte contemporanea) di Gand, ha selezionato cinque artisti che lavorano in Iraq e all’estero. Tra essi Rabab Ghazoul, residente a Cardiff, le cui performance si incentrano sull’inchiesta governativa condotta da sir John Chilcot per stabilire la verità sulle circostanze in cui il governo Blair assicurò la partecipazione all’invasione dell’Iraq nel 2003, e Haider Jabbar, un rifugiato che lavora in Turchia, i cui 2mila acquerelli comprendono immagini di persone assassinate dall’Isis. La mostra include due fotografi, Akam Shex Hadi (nella foto a sinistra, «Untitled», 2014-15) e Latif Al Ani, che ha immortalato le strade di Baghdad dalla fine degli anni Cinquanta a oggi.

Courtesy the Artist

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