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Sanzia Milesi
Leggi i suoi articoliChi era Andrew Warhola Junior prima di diventare Andy Warhol? In un libro, che come un road movie segue il suo viaggio a Los Angeles nel 1963, Deborah Davis racconta di come un ricco illustratore pubblicitario cambiò look e orizzonti diventando il padre della Pop Art. «Un giorno ti svegli e sei un’altra persona». Deve essersi sentito proprio così di ritorno da quel viaggio on the road.
Prima che nel 1968 Valerie Solanas gli sparasse e ovviamente prima che nel 1987 morisse in seguito a un intervento chirurgico alla cistifellea a soli 58 anni. Decisamente prima che, nel 1994, venisse inaugurato l’Andy Warhol Museum a Pittsburgh (città che nel 1928 gli aveva dato i natali) e pure prima di iniziare, da «artista più pagato del XX secolo» qual era, ad avere oggi invenduti e prezzi in picchiata alle aste di Christie’s. Prima del docufilm «Andy Warhol. American Dream» diretto da L’Ubomír Ján Slivka, al cinema proprio in questi giorni. A quell’epoca, i suoi lavori sulle lattine delle zuppe Campbell e i ritratti di Marilyn Monroe, quelli che poi sarebbero stati superquotati e osannati da tutti, ancora non convincevano critici e galleristi. Non c’era nessuna mostra personale di successo. Non esisteva nessuno studio loft a Manhattan chiamato la Factory. In quel 1963, semplicemente, il famosissimo Andy Warhol, noto ancora non lo era affatto. Andrew Warhola Junior sarebbe allora potuto rimanere un perfetto sconosciuto.
Quale viaggio fece da spartiacque tra quell’Andy con i pantaloni strappati e le scarpe da ginnastica e quello glamour con la parrucca bianco argento? La scrittrice Deborah Davis, non a caso anche produttrice cinematografica e già autrice di un’altra biografia romanzata (su Truman Capote), ha scelto di focalizzare la svolta della vita di Andy Warhol prendendo le mosse da un viaggio che Warhol intraprese nel 1963 attraversando in auto il Paese da New York a Los Angeles lungo la mitica Route 66. Destinazione la Ferus Gallery, dove il mercante d’arte californiano Irving Blum lo aveva chiamato a inaugurare una mostra coi suoi dipinti di Elizabeth Taylor ed Elvis Presley e dove i coniugi collezionisti Dennis Hopper e Brooke Hayward lo avevano invitato a una festa da star del cinema.
Fu così che, una carta di credito Carte Blanche e un materasso nel bagagliaio della station wagon nera Ford Falcon, lui e i suoi amici partirono all’avventura. Con lui, il suo nuovo affascinante assistente Gerard Malanga, l’artista Wynn Chamberlain e l’attore Taylor Mead. È da qui che Deborah Davis ha scelto il suo pretesto per raccontarci Andy Warhol: da quel viaggio, che era appena una nota a piè di pagina sulla biografia Popism (memoir di Warhol del 1980), tra fotografie, cimeli e scontrini da lui conservati nelle scatole di cartone che chiamava le sue «Capsule del tempo».
Ed è in questo viaggio nel tempo che i lettori incontrano i favolosi anni Sessanta con i personaggi che ne hanno segnato il cammino: artisti come Jasper Johns, Robert Rauschenberg, Roy Lichtenstein; lo scrittore distopico Aldous Huxley; l’attore Peter Fonda e Naomi Levine; il regista indipendente Jonas Mekas; collezionisti come Robert Scull e sua moglie Ethel, da tutti riconosciuti come «i genitori della Pop Art» e Marcel Duchamp, che lo stesso Warhol considerava il «padrino della Pop Art» (anche se scherzava dicendo che la Pop Art aveva più padri di Shirley Temple nei suoi film). In quel periodo, tra piscina dell’hotel e bagno della suite di Beverly Hills, da Santa Monica a Malibu, Warhol si buttò con decisione nel cinema indipendente, effettuando le riprese del film «Tarzan» con la sua Bolex 16 millimetri. E, una volta tornato a New York, diede vita al suo primo autoritratto. E, trovato un nuovo spazio in una vecchia caserma dei pompieri, inaugurò la Factory in East 87th Street, futura stella polare della cultura underground.
Così Andy Warhol, aprendo la strada dell’arte all’uso di mezzi meccanici per la creazione di immagini, raggiunse la Pop Art. Una miniera d’oro, peraltro, in cui coltivare il suo amore per le immagini in movimento (per lui il cinema, non la pittura, era l’arte del futuro) e per le immagini in serie (un principio fondamentale della pubblicità moderna in cui era cresciuto, tanto da insistere a chiamare dipinti le sue serigrafie).
Destinazione Los Angeles
di Deborah Davis, traduzione di Sara Reggiani, 288 pp., Accento, Milano 2025, € 18

La copertina del volume
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