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L’Elefantino della Minerva a Roma, dopo i restauri dell’Iscr. Fotografia di Paolo Piccioni

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L’Elefantino della Minerva a Roma, dopo i restauri dell’Iscr. Fotografia di Paolo Piccioni

C’è un matrimonio perfetto

Federico Castelli Gattinara

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Un convegno il 3 marzo nella sede dell’Istituto Superiore per la Conservazione e il Restauro (Iscr), al San Michele, ha fatto il punto su «Ambiente e Beni culturali», partendo dalla quindicennale collaborazione dell’Istituto con l’Ispra, l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, e dal loro legame tramite uno specifico protocollo d’intesa che scadrà nel 2017. Se oggi può sembrare pletorico parlare di «rete», non lo è se si prova a costruirne una sul serio, mettendo insieme enti diversi, cosa per nulla facile: non solo Iscr e Ispra, ma anche Iccd, Arpa, Università, Protezione Civile, Agenzia Spaziale Italiana e così via. Ben venga allora questa fusione di dati, conoscenze, lavoro tra Beni culturali e Ambiente, come sostiene Caterina Bon Valsassina, che ha guidato l’Iscr fino al 2009 e ora è direttore generale del Mibact (Educazione e Ricerca), non per un impossibile ritorno al passato, quando il Ministero aveva proprio quella denominazione, quanto perché più naturale se si parla di conservazione, sulla scia di Giovanni Urbani, che non l’attuale matrimonio tra beni culturali, turismo e spettacolo. «Il territorio è il nostro primo bene culturale, spiega Roberto Bianchini della Direzione generale delle Belle Arti. È documento, tessuto connettivo e luogo dove si sono stratificate le tracce delle civiltà che si sono succedute in Italia».
Tutto il convegno, lo ricorda il direttore Iscr Gisella Capponi, verte sulla pratica del restauro preventivo, che è poi il fondamento della teoria di Cesare Brandi e quindi dell’Istituto stesso. Ed è il concetto base della collaborazione tra Iscr e Ispra, su cui in questi anni si è costruita la messa in comune di dati e conoscenze per la valutazione e la quantificazione dei danni ai beni culturali derivanti sia dall’inquinamento atmosferico e da altri fattori antropici sia dal dissesto idrogeologico. Il fine è quello di programmare le attività di manutenzione di un bene e gli eventuali interventi, perché il «percorso di tutela e conservazione, tuona il presidente Ispra Bernardo De Bernardinis, dovrebbe offrire in tutto il Paese reti di monitoraggio integrate e permanenti sui processi di esposizione, vulnerabilità, degrado». La parte più importante, spiega, è quella dell’architettura istituzionale, ancor prima di parlare di finanziamenti. Oggi la realtà è desolatamente diversa, ammettono tutti, ed è soprattutto un problema di mentalità. I piani paesaggistici, ad esempio, che dovevano essere pronti per il 2004, non esistono, a parte poche eccezioni virtuose come la Puglia (la Toscana lo sta discutendo ora, con grandi polemiche interne alla stessa maggioranza di governo), perché si pensa ancora che i vincoli siano un intralcio allo sviluppo del territorio. Bisogna poi evitare leggi istitutive che danno vita a una pletora di enti diversi, come le Agenzie regionali per la protezione dell’ambiente che variano da Regione a Regione, o leggi approvate che restano lettera morta perché senza regolamenti attuativi. Si ritorna così alla difficoltà di fare rete, se una moltitudine di soggetti produce e fornisce informazioni, se queste non seguono una logica di sistema, se le modalità della loro raccolta non vengono definite a livello nazionale, dando vita a interpretazioni magari distorte. «L’Iccd, dice il suo direttore Laura Moro, coordina la raccolta dati, ma siamo un Paese di creativi, la normalizzazione del metodo non è il nostro “core business”».
Il punto qualificante di questa collaborazione Iscr-Ispra è la condivisione delle informazioni e il riconoscimento del monitoraggio come elemento base del Paese, dal quale si può avviare «anche» un discorso di fruibilità.
Il rischio ambientale, e di conseguenza i dati per il controllo, la pianificazione e l’intervento sul territorio, è il tema di questi anni e del futuro, anche se ben poco si sta facendo a livello legislativo. In collaborazione con Arpa Lazio, i due istituti centrali hanno avviato nel 2013 una campagna sperimentale presso sette siti di Roma per individuare una correlazione tra la «dose» (inquinanti atmosferici e fattori climatici) e la «risposta» (danni subiti come perdita di materiale e sporcatura). Il problema dell’impatto dei cambiamenti climatici sul patrimonio culturale è stato sviluppato nell’ambito del progetto «Life Act» per la città di Ancona, su 25 monumenti architettonici e 2 archeologici: i più a rischio sono risultati la Mole Vanvitelliana, il Tempio di San Rocco, la chiesa del Ss. Sacramento, la Porta Farina e la chiesa del Gesù. Sul fronte di studio relativo al rischio idrogeologico, sono quasi 14mila i beni culturali a rischio frana, oltre 28mila quelli a rischio alluvione e 39mila quelli a rischio basso di alluvione, ma di estrema intensità. Per le frane, numerosi sono i borghi storici interessati da fenomeni di dissesto, tra cui Volterra, Civita di Bagnoregio e Certaldo.
L’Italia è un Paese strano e il convegno rende visibili le sue forse insanabili contraddizioni. Da una parte si continua a massacrare il territorio, con follie come il Museo Narrante di Hera Argiva, a 8 km da Paestum, inondato per la terza volta a febbraio dal Sele (sorge in una masseria sotto il livello del mare), il tribunale di Reggio Calabria costruito in una fiumara, la piana di Sibari diventata un grande pantano finché in 5 mesi e con soli 4 milioni di euro non si è messo in sicurezza il fiume Crati, posti di protezione civile in Sardegna e la caserma dei Vigili del Fuoco di Aulla (Ms) in zone alluvionali, e così via. «Non sappiamo nemmeno quanta edilizia è stata sanata nei tre condoni, che tra l’altro hanno fatto incassare 15 milioni a fronte dei 45 spesi in opere di urbanizzazione», ammette Erasmo De Angelis, coordinatore della Struttura di missione contro il dissesto idrogeologico della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Dall’altra, vere eccellenze, come quella illustrata da Roberto Battiston, presidente dell’Agenzia Spaziale Italiana (Asi), che con i sofisticatissimi quattro satelliti di Cosmo SkyMed consente, tra le altre cose, un monitoraggio su vasta scala dei beni culturali e dei loro movimenti, sempre al fine di identificare priorità di rischio e pianificare interventi in situ.
Molti i temi, molto interessante il confronto. Tra tutti: De Angelis assicura che i soldi per le urgenze ci sono, italiani ed europei, ma spesso mancano i progetti esecutivi. «Abbiamo ricevuto i primi 700 milioni dal Cipe, altri 500 arriveranno tra due mesi», assicura e sottolinea che «dal 2000 al 2014 le regioni del Sud del Paese non hanno speso 31 miliardi». Rossana Cintoli, direttore tecnico di Arpa Lazio, si schiera contro la «moda» della responsabilità individuale dei funzionari pubblici che, a suo parere, rischia di bloccare l’Italia perché nessuno più si assumerà l’onere di prendere una decisione. Laura Moro sottolinea come gli «open data» possono essere il cavallo di Troia per radicare la partecipazione attiva di tutti (cittadini, associazioni ecc.) alla tutela del patrimonio. Ricorda inoltre che negli archivi Iccd ci sono milioni di foto aeree del territorio mai usate. Gisella Capponi si scaglia contro l’inutile abuso della diagnostica. Le indagini «vanno mirate», insiste più volte, e aggiunge «se non c’è rigore, disciplina, senso del dovere, schedare i monumenti senza poi aggiornare i dati sono soldi buttati. Ogni volta si riparte da zero ed è una follia».





L’Elefantino della Minerva a Roma, dopo i restauri dell’Iscr. Fotografia di Paolo Piccioni

Federico Castelli Gattinara, 30 marzo 2015 | © Riproduzione riservata

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