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Camilla Sordi
Leggi i suoi articoliIl progetto a lungo termine intrapreso dal Qatar, come dall'intero Medioriente, per affermarsi a livello internazionale in campo artistico sta per vivere una svolta decisiva. Niente, come una fiera, sembra in grado di innescare un'evoluzione nei meccanismi culturali ed economici che ruotano attorno a una città, o a un Paese intero. Gallerie, collezionisti, artisti, appassionati; e poi curatori, critici, esperti, visitatori. Una fiera promette di accendere ogni comparto del sistema, coinvolgerlo capillarmente. Figuriamoci se questa fiera assume il nome di Art Basel Qatar. Prevista per febbraio 2026, a Doha, la manifestazione ha l'obiettivo di consolidare il ruolo della Regione come player credibile nell'arte. Un attore capace di accogliere l'Occidente e di predisporre un'offerta che esso percepisca come integrata nella sua visione dell'arte, e non macchiettistica o esotica. Per questo c'è curiosità attorno alle gallerie partecipanti e alla loro proposta. Quanto sarà importante? Quanto, in poche parole, considerano rilevante l'appuntamento? E sull'altro fronte, quello locale, con che tipo di vetrina debutterà su un palcoscenico che, forse per la prima volta, avrà la piena attenzione di tutti gli addetti ai lavori? Ecco una parziale risposta.
L'organizzazione ha infatti diffuso qualche anticipazione riguardo la proposta che 87 gallerie - di cui sedici al debutto e la metà proveniente dalla Regione - allestiranno tra l'M7 e il Doha Design District, i due spazi centrali della fiera, seguendo le indicazione del curatore Wael Shawky, che ha individuato in Becoming il tema portante dell'evento. Un percorso che idealmente si apre su riflessioni che interrogano il corpo e la sua posizione nel mondo. Con Ali Cherri, presentato da Almine Rech, il confine tra umano e animale diventa terreno instabile. Sculture e figure mitiche mettono in scena l’idea del “diventare animale”, evocando un immaginario arcaico che destabilizza le gerarchie contemporanee e invita a riconsiderare il nostro rapporto con altre forme di vita. La metamorfosi, qui, non è fuga ma presa di coscienza, come emerge in opere quali «Vermilingua Bust».
Un’intimità luminosa attraversa invece la presentazione congiunta di Anthony Meier e Waddington Custot dedicata a Etel Adnan. I suoi dipinti, raccolti in un booth concentrato e quasi meditativo, restituiscono paesaggi interiori in cui memoria, esilio e appartenenza si fondono in campiture di colore essenziali. In lavori come «Mont Tamalpaïs II», il becoming è un dialogo silenzioso tra luogo e spirito, tra ciò che si perde e ciò che resta. Il rapporto tra spazio, potere e trasformazione urbana emerge con forza nel lavoro di Ahmed Mater, presentato da Athr Gallery. Attraverso una serie fotografica dedicata a Makkah, la città sacra appare come un organismo in espansione, attraversato da forze economiche e logistiche spesso invisibili. Lontana dall’idea di una forma immutabile, Makkah diventa processo, tensione costante tra sacro e infrastruttura, tra permanenza e mutamento.
Etel Adnan, 'Mont Tamalpaïs II', 2019. Courtesy of Anthony Meier and Waddington Custot
Mohamed Monaiseer, 'I, Pet Lion (Tanks Arena)', 2023. Courtesy of the artist and Gypsum
La grammatica della costrizione e della vulnerabilità attraversa il booth di Galerie Chantal Crousel con Mona Hatoum. Griglie, gabbie e materiali alterati compongono un ambiente in cui protezione ed esposizione coincidono. Opere come «Mirror» e «Divide» trasformano oggetti e strutture familiari in dispositivi di allerta, ricordando quanto il confine tra sicurezza e prigionia sia fragile. Il tema del conflitto come forza che modella identità e immagini riaffiora nelle tele di Marlene Dumas, presentate da David Zwirner. I dipinti della serie «Against the Wall», nati da immagini mediatiche del conflitto israelo-palestinese, rifiutano letture univoche e restituiscono volti e corpi sospesi, segnati da una storia che non trova mai una forma definitiva. Con Gypsum Gallery, Mohamed Monaiseer porta in fiera un linguaggio che mescola gioco e violenza. Nei suoi tessili ricamati e dipinti, come «I, Pet Lion (Tanks Arena)», simboli militari e strategie infantili convivono, mostrando come la retorica del conflitto si insinui nella cultura visiva quotidiana, normalizzandosi fino a diventare decorazione.
Il cambiamento come necessità etica attraversa il lavoro storico di Philip Guston, presentato da Hauser & Wirth. Anche il passaggio dall’astrazione alla figurazione non appare come una svolta stilistica, ma come un atto di urgenza emotiva, un modo per restare aderente a un presente inquieto e contraddittorio, come testimonia un’opera emblematica quale «Sign». Un’attenzione radicale al processo emerge nella presentazione di Gallery Isabelle dedicata a Hassan Sharif, figura chiave dell’arte concettuale nel Golfo. Studi, lavori in corso e sistemi semi-seriali restituiscono una pratica che rifiuta la compiutezza, concependo l’opera come linguaggio in formazione continua, come in «Aluminium Container».
La memoria profonda delle civiltà antiche dà sostanza al progetto di Simone Fattal da Karma International. Forme essenziali e materiali arcaici evocano storie che attraversano il tempo, in un divenire che lega mito e biografia. Con Lia Rumma Gallery, Shirin Neshat affronta il presente più urgente, intrecciando video e fotografia in «Do U Dare!», un lavoro che interroga identità, potere e spettacolarizzazione del sé. Il gesto che si solidifica diventa scultura nelle ceramiche di Lynda Benglis, presentate da Pace Gallery, come nella serie «Elephant Necklace Circle», mentre Sfeir-Semler Gallery ripercorre l’intensa ricerca pittorica di MARWAN, i cui volti sono luoghi interiori più che ritratti. Infine, The Third Line introduce «HiLux» di Sophia Al-Maria, un progetto che trasforma un veicolo iconico del Golfo in simbolo di memoria, mascolinità e sopravvivenza, sospeso tra mito e realtà post-petrolifera.
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