Image

Verifica le date inserite: la data di inizio deve precedere quella di fine

Image
Image

Ancora guerra fredda tra Beniamino Levi e la Fondazione Dal

Image

Redazione GDA

Leggi i suoi articoli

In autunno si terranno quest’anno a Shanghai due mostre di Dalí: una nello spazio del Bund 18, dal 26 settembre al 10 gennaio, con sculture della collezione Levi di Lugano e Parigi; l’altra nel K11, dal 5 novembre al 15 febbraio, con opere provenienti dalla Fondazione Dalí di Figueres. Durante una conferenza stampa il direttore della Fondazione catalana, Juan Manuel Sevillano, ha fatto una dichiarazione incauta, che le sculture dell’altra mostra non sono veri Dalí bensì riproduzioni d’arte non originali, riaprendo una polemica che sembrava, se non superata, quanto meno «dormiente».

La Fondazione non ha mai gradito che Dalí in vita e in perfetta coscienza avesse dato incarichi a terzi di fare ciò che lui voleva, la fusione delle sue sculture e la diffusione dei suoi multipli, e non è mai riuscita a contestare la legalità dei contratti che Dalí aveva sottoscritto col gallerista e collezionista italiano Beniamino Levi vendendogli numerose sculture e autorizzandolo a realizzare un determinato numero di fusioni nella quantità massima (non più di 8 più 4 prove d’artista), limite internazionalmente accettato per attribuire alle singole fusioni la qualifica di «opera originale» che le distingue da repliche, copie e multipli il cui valore è incomparabilmente inferiore. È difficile che Sevillano, manager della Fondazione, sia scivolato in un infortunio verbale. Abbiamo sentito in proposito le reazioni di Beniamino Levi.

Signor Levi, Dalí è all’ordine del giorno. È stato l’artista che l’anno scorso ha avuto un altissimo numero di visitatori alla sua mostra al Centro Cultural Banco do Brasil a Rio de Janeiro (973.995 biglietti staccati) dimostrando più che mai che se non è l’artista del XX secolo più conosciuto nel mondo, certamente è in assoluto uno dei più popolari. Dalí aveva sottoscritto molti contratti per lo sfruttamento e la divulgazione delle sue opere: contratti di concessione per la fusione di sculture originali, per multipli, grafiche, libri ecc. Quando morì, lasciò tutta l’eredità allo Stato spagnolo, che affidò l’incarico di gestire gli interessi di Dalí alla Fondazione che reggeva il museo che l’artista aveva creato in vita per se stesso a Figueres, sua città natale. La Fondazione persegue questi obiettivi, ma non può invalidare la volontà contrattuale di Dalí. Lei, Beniamino Levi, è l’editore che tuttora ha più contratti in essere fatti con Dalí durante la sua vita e tuttora validi. Con il tempo altri editori sono scomparsi. I suoi contratti che scadenza hanno?

I miei contratti non hanno nessuna scadenza perché ho anche i copyright delle opere che Dalí mi ha ceduto. Alcuni contratti li ha firmati lui stesso a me; altri li ho rilevati da un suo segretario e fiduciario, Enrique Sabater, oggi defunto, che ha venduto il  suo archivio alla Fondazione.

Visto che Dalí è morto nel 1989, da un punto di vista legale i suoi contratti sembrano incontestabili.

Sì, certo. Ho aperto nel 1991, a Parigi, un museo a cui non posso dare il nome di museo, ma è uno spazio dedicato a Dalí. Infatti lo chiamo «Espace Dalí» e vi espongo le opere legate ai contratti che avevo sottoscritto precedentemente con Dalí o con il suo segretario.

È un peccato che non corrano buoni rapporti tra lei e la Fondazione. Non si capisce perché non possiate collaborare nella pacifica esecuzione della volontà di Dalí. Se lei tenesse comportamenti scorretti, non corrispondenti a quanto previsto dai contratti, potremmo capire che la Fondazione Dalí volesse ostacolarla. Ma non essendoci nulla da eccepire, come spiega questa «guerra fredda»?

Mi vedono come un concorrente. Infatti tutti dimenticano che la Fondazione è un’entità privata e può operare anche a fine di lucro.

Quindi non avrebbe soltanto scopi ideali e disinteressati?

È un’entità privata che come legittimo fine ha anche quello di guadagnare denaro. Io sono visto come un concorrente non gradito perché anch’io organizzo mostre: finora in tutto il mondo ne ho curato più di ottanta in spazi privati, ma anche con musei importanti. La Fondazione non mi vede come possibile partner, ma come un’entità «altra».

Lei invece sostiene di contribuire alla divulgazione e all’affermazione del nome di Dalí.

La Fondazione commette un grande errore: pur avendomi rilasciato un documento che certifica la validità legale dei miei contratti, vorrebbe che le mie opere venissero sottoposte al loro controllo o benestare da un punto di vista estetico e culturale. Questo non ha senso perché ho ricevuto il mio diritto da Dalí e il suo volere è incontestabile, non lo si può discutere. Per esempio: Dalí in tre contratti mi impegnava a donare al museo le fusioni di tre sculture, che ho consegnato nei termini previsti. Queste tre sculture ora sono a Figueres, nel museo. Chi le ha mai viste? Le tengono nascoste. Dalí le voleva per mostrarle al pubblico. L’unica spiegazione è che non vogliano suffragare pubblicamente il mio diritto esponendole. Ma quelle sculture non sono figli illegittimi, non sono colpe da tenere nascoste e segrete.

Quindi la vostra contrapposizione non è tra un ente morale senza fine di lucro e un privato operatore privo delle necessarie legittimazioni contrattuali. Si tratta piuttosto, secondo quanto lei afferma, di un tacito, latente attrito, una sostanziale concorrenza. Lei avrebbe qualcosa in contrario a stabilire invece un contratto di collaborazione con la Fondazione?

In linea di principio no, ma dopo gli ultimi avvenimenti ci rifletterei.

Ci ha provato in passato?

Sì, fin dal ’96 i miei avvocati avevano mandato alla Fondazione una proposta per un incontro e un’eventuale riduzione sullo sfruttamento dei contratti in essere. Pur avendo noi il copyright, e quindi libertà d’azione anche nel merchandising, volevamo incontrarci per concordare una linea comune. Ma non abbiamo mai avuto risposta.

Lei lamenta che invece comportamenti come, per esempio, le dichiarazioni di Shanghai in qualche misura ledono il pacifico godimento dei vostri diritti.

Posso produrre un corposo dossier che dimostra come in vari casi la Fondazione mi abbia arrecato danno. Per esempio, in alcune mostre che stavo organizzando con alcuni musei coreani. Queste istituzioni non conoscono nei dettagli i rapporti tra Dalí e la Fondazione e sovente chiedono informazioni a quest’ultima. La Fondazione risponde sempre con toni negativi o dubitativi, mai riconoscendo in modo chiaro la legittimità e legalità dei nostri contratti. In alcuni casi queste entità hanno rinunciato a organizzare mostre temendo che vi fossero risvolti non completamente legali. Insomma, non c’è la collaborazione che nel bene di Dalí avrebbe dovuto esserci. E poiché non possono contestarmi nulla, questa politica di ostilità non può essere dovuta che a conflitti di interesse.

Non le hanno mai contestato alcunché?

Mi hanno contestato che, sulla base dei diritti e del copyright che ho, io abbia fatto del merchandising. Avevo dato una licenza a una società, una manifattura di penne da collezione che ha prodotto una penna Dalí la quale si è vista arrivare una denuncia da parte della Fondazione e un sequestro di tutto quello che avevano nel loro laboratorio. Sono intervenuto personalmente in questa disputa legale e, difeso dall’avvocato Dario Jucker, dopo un anno l’ho vinta. La Fondazione ha dovuto non solo far annullare dal Tribunale i sequestri, ma è stata condannata a pagare 7mila euro per le spese a me e al Tribunale. Perché non hanno fatto ricorso in appello? Eppure quella sentenza del tribunale di Firenze è un altro riconoscimento legale della perfetta validità dei miei diritti e dei miei copyright.

È appena arrivata la notizia che avete vinto anche a Sorrento. Di che cosa si tratta?

La Fondazione ha contestato una mostra che avevamo fatto con la città di Sorrento. Per una denuncia fatta da un consigliere di opposizione per mettere in difficoltà il sindaco, ci sono stati controlli della Guardia di Finanza e il pm ha nominato un perito. Dopo il controllo dei contratti, il pm ha deciso il non luogo a procedere per l’assenza di qualsiasi reato. La Fondazione si è opposta, il giudice ha riesaminato tutta la pratica e ha ordinato l’archiviazione definitiva respingendo le rivendicazioni della Fondazione.   

Lei ci ha segnalato anche il caso di un articolo impreciso di una rivista d’arte americana.

Oggi la gente, soprattutto i giornalisti, giudicano la Fondazione come l’ente morale che gestisce i diritti di Dalí e naturalmente una ditta che fa capo a un privato come me e che non ha un apporto o un avallo della Fondazione è considerata un’entità speculativa da contestare e da controllare. Ma io ho iniziato a sostenere il nome di Dalí con mostre importanti nel 1988-89 quando egli era ancora in vita, in un periodo in cui il suo nome era in seria crisi di credibilità per vicende di fogli firmati e per scandali causati da soggetti che avevano realizzato false grafiche. Io in quel periodo, con le mie mostre, ho invece cercato nel mio stesso interesse di sostenere al meglio il nome di Dalí. Questo non mi è mai stato riconosciuto dalla Fondazione. Nel 1995 ho organizzato in place Vendôme una mostra all’aperto di 17 sculture monumentali che è durata più di due mesi e ha avuto un enorme successo. I pullman di turisti bloccavano il traffico

Dalí, come tutti gli artisti, aveva il diritto di fare le scelte che ha voluto. Per i più svariati motivi: convenienza, denaro, sfruttamento economico delle proprie creazioni. Possiamo giudicarle buone o cattive, ma le sue scelte vanno rispettate anche dopo la sua morte. Tra le varie intuizioni avute in vita, Dalí aveva capito che cosa stava diventando il mercato dell’arte. Andy Warhol ha iniziato da lui. Molti artisti oggi famosi riconoscono a Dalí di aver capito per primo che il suo modo di operare nel mercato non aveva niente a che vedere con il suo genio creativo e la sua credibilità.

Dalí ha insegnato all’arte contemporanea come muoversi, è stato l’ispiratore di artisti ora sulla cresta dell’onda, come Jeff Koons, che ha un atelier di 100 e più persone che lavorano per lui.

Alla luce di una così estesa popolarità oggi, come vede il futuro di Dalí, anche dal punto di vista collezionistico e museale?

Dalí non può che crescere nel mercato perché è stato uno dei pilastri dell’arte moderna del secolo scorso, l’artista con maggiore capacità creativa e con maggior intelligenza della propria creazione. Era un uomo di cultura eccezionale, in tutti i campi, aveva una curiosità inesauribile e si interessava a tutti gli aspetti della scienza, della cultura, della letteratura, della fotografia, della politica e della religione. Un artista così non può che crescere nella considerazione della critica. Ma la critica l’ha sempre un po’ maltrattato perché era diverso da tutti gli altri, perché era fuori schema.

Lui ricambiava disprezzando a sua volta i critici.

Quando incontrava i giornalisti li prendeva in giro, giocava con il suo umorismo, li copriva con il suo sarcasmo.

Per quanto riguarda la diffusione di repliche e di tirature di sculture o multipli, quali certezze possono avere gli acquirenti che non vi siano eccessi o irregolarità oltre quanto è prescritto e legittimo?

Per quanto mi riguarda io sono assolutamente trasparente. Conosco benissimo il problema e sono sempre stato attentissimo a comportarmi con irreprensibile chiarezza. Se dovessi arrivare a un accordo con la Fondazione, i miei registri potrebbero essere aperti a chiunque e a qualsiasi controllo terzo, ma non alla Fondazione, posso documentare tutto quello che ho fatto e quanto posso ancora fare. Il mercato potenziale di Dalí è enorme, è il mondo intero. Jeff Koons fa dei multipli in 3mila esemplari, ma non credo che Koons possa essere paragonabile a Dalí. Le tirature dei nostri multipli sono fatte con tre patine diverse, ognuna è di 350 esemplari. Chiunque voglia controllare i diritti di Dalí (non il primo che passa per la strada, si capisce, ma un ente anche privato purché agisca su mandato dell’erede legittimo, cioè del governo spagnolo), può controllare in qualsiasi momento la nostra ineccepibile regolarità. 

Lei non si è mai opposto a questi controlli?

Non mi sono mai opposto.

Ma la Fondazione glieli ha mai chiesti?  

No. Sanno soltanto criticare, cercano di negare o di nascondere l’evidenza che esistiamo e di quanto Dalí stesso ci aveva concesso.

Redazione GDA, 29 settembre 2015 | © Riproduzione riservata

Altri articoli dell'autore

L’Associazione archeologi del Pubblico Impiego (Api-MiBact) ha inviato una nota al Ministero della Cultura e a quello della Funzione Pubblica, nonché ai membri delle Commissioni cultura di Camera e Senato, per esprimere il proprio dissenso per il bando per 75 posti nell’area dell’elevate professionalità (Ep), le cui domande di partecipazione vanno presentate entro il 26 giugno

Il premio Nobel e il direttore del Museo Egizio si sono incontrati per parlare di musei e romanzi: «Sono simili: sono i “luoghi” in cui avviene l’interpretazione del significato della nostra vita, nei quali riflettere su sé stessi»

Anche quest’anno Tag Art Night, la Notte delle Arti Contemporanee, propone un palinsesto di mostre diffuse sul territorio cittadino

Rimodulate le competenze e modificato la struttura organizzativa: dal Segretariato generale al modello dipartimentale

Ancora guerra fredda tra Beniamino Levi e la Fondazione Dal | Redazione GDA

Ancora guerra fredda tra Beniamino Levi e la Fondazione Dal | Redazione GDA