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Vivienne Westwood (1941-2022)

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Vivienne Westwood (1941-2022)

Addio a Vivienne Westwood, madrina del punk e stilista della tribù dell’arte

La sua biografa Jane Mulvagh racconta la fashion designer morta a 81 anni che si ispirava al costume storico e alla ritrattistica e si batteva per l’accesso gratuito ai musei

Jane Mulvagh

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Ci sono due stilisti di moda che più di altri appartengono alla tribù dell’arte: Yves Saint Laurent e Vivienne Westwood.
Saint Laurent, raffinato collezionista, ha attraversato l’arte di tutto il mondo, l’ha assaporata, presa in prestito e tradotta in tessuto, che si tratti della «Composizione con rosso, blu e giallo» di Mondrian del 1930, della Colomba di Picasso del 1949 o di un paravento di Coromandel del XVIII secolo. Allo stesso modo, Vivienne Westwood ha trasformato l’armatura di Kolman Helmschmid dell’inizio del XVI secolo in una giacca di tweed Harris imbottita di pannelli corazzati, ha stampato i putti di Boucher da «Venere e Vulcano» (1754) su corsetti e impermeabili e ha utilizzato i graffiti della metropolitana di New York di Keith Haring del 1980-81 sullo streetwear in cotone, un esemplare del quale su 1stDibs.com è quotato 36mila sterline. Entrambi gli stilisti hanno creato una bellezza sconvolgente e indossabile.

Molti operatori della moda che in seguito avrebbero acclamato la creatività di Westwood e sarebbero stati appassionati acquirenti, o addirittura collezionisti, dei suoi abiti, per molto tempo non l’hanno capita. La deridevano dicendo che i suoi abiti non erano indossabili, erano malfatti, ridicoli. Non erano nulla di tutto questo e molti scettici della prima ora sono poi diventati avidi collezionisti di pezzi vintage Westwood.

Westwood ci parlava attraverso i suoi abiti, dicendoci che cosa contava, che cosa dobbiamo proteggere, valorizzare o rifiutare. A differenza di Saint Laurent, non ha avuto un’istruzione privilegiata. Ne ha avuta una ancora migliore: quella cruda, inedita, unica dell’autodidatta. Meravigliarsi, rubare, sottrarre, creare: questa era il suo modo di lavorare. La sua inventiva si è formata cercando attivamente quelli che lei definiva i suoi «guru», persone da cui poteva imparare. Ne succhiava avidamente il midollo mentale.

Malcolm McLaren, suo amante di lunga data, è stato il suo primo guru; la introdusse alla ribellione di strada britannica, al Situazionismo francese, alla cultura pop americana. Gary Ness, insegnante di filosofia canadese e suo secondo guru, le insegnò l’elitismo e la filosofia dell’antica Grecia.

Io l’ho conosciuta nel 1981 e mi chiedeva spesso di cenare con lei alla Khan’s Curry House di Paddington per parlare di letteratura e arte. Stava lavorando con Keith Haring, alcune delle cui figure stilizzate facevano riferimento all’incesto. Le chiesi se avesse letto lo studio di Thomas Mann sul male, la magia e l’incesto, L’eletto (Der Erwählte, 1951), o se avesse visto i primi «graffiti» delle pitture rupestri del Paleolitico a Lascaux.

È innegabile che Malcolm McLaren sia stato determinante nel plasmare la mente della sua amante, ma a rendere Vivienne Westwood una stilista così importante è stata l’invidiabile spinta a sperimentare, migliorare e lanciare proclami attraverso i suoi abiti. Non dava nulla per scontato. Prendiamo, ad esempio, una manica. Perché inserirla in modo convenzionale? Perché non torcerla, tagliarla in sbieco? Guardate come dà al corpo un senso di movimento quasi cinetico.
Objets trouvés? Posso farlo, pensò. Forse non mangerei il pollo del takeaway di fronte al mio negozio di World’s End, quello al 430 di King’s Road a Chelsea (dove Vivienne Westwood e Malcolm McLaren vendevano abiti con una serie di nomi tra cui «SEX» e «Seditionaries», e dove Westwood è emersa come voce del Punk al suo apogeo durante il Giubileo d’Argento della regina Elisabetta II), ma facciamo bollire quelle ossa di pollo, buchiamole e scriviamo messaggi provocatori su una t-shirt punk.

La Pirate Collection di Vivienne Westwood (autunno-inverno 1981-82). Foto David Corio

Ancora una volta Westwood ha guardato con occhi nuovi alle immagini dei pirati. Il disordine stesso dei loro abiti che cadono male conferisce a chi li indossa un déshabillé post coito. Alla Art Library del Chelsea Town Hall e poi alla National Art Library del Victoria and Albert Museum aveva trovato libri sui pirati del XVIII secolo, tra cui The Cut of Men’s Clothes di Norah Waugh, e aveva notato che questi abiti pendevano in modo suggestivo anziché seguire con precisione le forme del corpo. Da questa ricerca nacque la Pirate Collection del 1981, la prima sfilata di Westwood e McLaren. Se provate i pantaloni, vedrete che nessuna patta con bottoni è tagliata dritta sul cavallo, ma si stende in diagonale sull’addome, conferendo un’aria di dolce disordine. E il dolce disordine era il suo leitmotiv.

Grazie a Gary Ness scoprì che Platone sosteneva il governo dei re filosofi e che il Demos doveva rimettersi alla loro superiore saggezza. Le diedi una copia di Dagherrotipi e altri saggi di Isak Dinesen (Karen Blixen), in cui lesse un saggio sulle forme del corpo. Dinesen osservava che in passato, quando la fame era all’ordine del giorno, i ricchi prediligevano la voluttuosità, mettendo in risalto i loro stomaci pieni. Ma nell’Età dell’abbondanza, quando molte pance si riempivano di carboidrati e zuccheri, i ricchi si differenziavano con una magrezza alla moda: un cambiamento di gusto avvenuto alla fine del XIX secolo. Westwood ha assimilato queste due informazioni, Platone e Dinesen, e ne ha creato una sintesi nell’abbigliamento.

Sosteneva di essere contraria alla democrazia perché l’uomo della strada non era attrezzato per prendere decisioni sensate. Prima dell’avvento della democrazia moderna, l’élite era voluttuosa, per cui decise di realizzare una collezione di sartoria elitaria con natiche imbottite e seni prosperosi che esplodevano dai corsetti. Stampò su corsetti e impermeabili immagini dell’Ancien Régime del privilegio francese, tratte da Boucher e Fragonard (la Wallace Collection di Londra era un altro dei suoi musei preferiti) in modo che la gente capisse che non prediligeva il popolare, l’ordinario o il casual. Da qui la sua famosa collezione «Portrait» del 1990. Ha letteralmente indossato la sua cultura.

Vivienne Westwood era una perfezionista. Lottando per tenere la testa fuori dall’acqua, mentre i conti si accumulavano e la sua vita personale andava a rotoli, manteneva alti gli standard. Un affermato sarto di Camden Town venne redarguito per alcune imperfezioni. Gli esperimenti con la stampa venivano ripetuti più volte per ottenere il risultato giusto. Una volta che ricevette un sostegno finanziario ragionevolmente solido, gli standard vennero ulteriormente alzati. Se indossate uno degli abiti da ballo couture in satin di Westwood, siete Maria Antonietta e lei vuole che lo sentiate davvero.

La Portrait Collection di Vivienne Westwood (autunno-inverno 1990)

Quando, all’inizio degli anni Novanta, la nota direttrice di un’importante casa editrice mi chiese di discutere la mia proposta per una biografia di Westwood, lei si sedette e ascoltò, ma continuò a ripetere «ma i suoi abiti non sono indossabili», e alla fine concluse che ci sarebbe stato poco interesse per una biografia del genere. La ringraziai educatamente per il suo tempo e mi diressi verso la porta. Mentre la mia mano si avvicinava alla maniglia, lei mi disse: «Mi piace il tuo vestito. Dove l’hai preso?». Immaginate la mia gioia quando ho risposto: «Westwood!». Mi ha fatto riflettere. Avevo una pagina su un giornale nazionale e così ho riunito professioniste di alto profilo, tra cui la fondatrice di «The Art Newspaper», Anna Somers Cocks, e le ho vestite con abiti sartoriali Westwood. Sembravano potenti, belle, libere e coraggiose.

Questo mi ha fatto pensare che il passo successivo sarebbe stato Parigi, soprattutto vista la profonda conoscenza e l’amore di Westwood per gli abiti di Christian Dior. Sicuramente Bernard Arnault, capo di LVMH, avrebbe dovuto nominarla capo stilista di Dior. Sarebbe stata perfetta. Nel 1991 presi appuntamento con il direttore generale di Dior, Daniel Piette, e con Vivienne portai il suo portfolio a Parigi. Il portfolio dimostrava che era una pioniera in tantissime tendenze, troppe da elencare. Eravamo sul primo volo in partenza.

Vivienne, con i suoi riccioli tinti di rosso come il succo di melograno, indossava un abito di velluto stampato in oro, aderente come una pellicola trasparente, e zeppe altissime e stringate. Anch’io vestivo Westwood, una giacca di velluto nero modello Rob Roy, abbottonata d’oro, una camicetta da cavaliere in tela batista bianca che spumeggiava sul corsetto attillato, una minigonna di velluto, un morbido tam o’shanter [copricapo tradizionale scozzese, Ndr] e scarpe alte 15 centimetri. Mentre avanzavamo impettite nel desolato atrio di Heathrow verso il nostro gate, un aereo proveniente da Delhi aveva appena sbarcato una folla di indiane vestiti con sari che ci indicavano e applaudivano al nostro passaggio.

Sicuramente avremmo preso d’assalto Parigi. Invece no. In seguito venni a sapere che Arnault aveva calcolato che Westwood non poteva essere «controllata» mentre, qualche anno dopo, riuscì a influenzare, fino a un certo punto, John Galliano e Alexander McQueen, entrambi fortemente influenzati da Westwood e felici di riconoscerlo.

Una veduta della mostra «Vivienne Westwood: A Retrospective», Londra, Victoria and Albert Museum, 2004

Il rifiuto fu una buona cosa. Vivienne Westwood ha continuato a perfezionarsi e a fare meraviglie, con le sue forze e alle sue condizioni, lavorando ultimamente con il suo secondo marito, Andreas Kronthaler. Non c’è da meravigliarsi che le folle facciano la coda intorno all’isolato per vedere le sue retrospettive museali, compresa quella allestita al Victoria and Albert Museum di Londra nel 2004, prima che facesse il giro del mondo. Non c’è da stupirsi se i suoi pezzi vintage costano migliaia di sterline. Non mi ha sorpreso che i miei studenti della Central St Martins Art School volessero davvero conoscere la sua opera. Se la si mostra ai giovani, loro «capiscono» l’innovazione.

Westwood è una delle dimostrazioni per cui, come i bambini fanno la fila ai banchi alimentari, così bisognerebbe dare loro accesso gratuito ai musei. Chissà che cosa inventerà o creerà quel bambino così brillante, davanti a un Caravaggio o a un Duchamp, da far progredire la cultura e arricchire la vita e l’ambiente di tutti. Di tutte le iniziative di Vivienne Westwood, «Free Entry To Our Museums» è stata la più importante. Lei stessa è un grande esempio di ciò che l’accesso alla cultura possa produrre.

Il 29 dicembre 2022 è morta a Londra Vivienne Isabel Swire, nata a Glossop, nel Derbyshire, l’8 aprile 1941. Nominata Officer of the British Empire (OBE) nel 1992 e Dame Commander of the Order of the British Empire (DBE) nel 2010, dal 1962 al 1966 è stata sposata con Derek Westwood, dal quale ha avuto il primo figlio, Benjamin. Nel 1967 nasce il secondo figlio, Joseph, dalla relazione con Malcolm McLaren, futuro manager dei Sex Pistols. Nel 1993 sposa un suo studente di moda, Andreas Kronthaler.

Jane Mulvagh è autrice della biografia Vivienne Westwood: an unfashionable life (1999)

Jane Mulvagh, 03 gennaio 2023 | © Riproduzione riservata

Addio a Vivienne Westwood, madrina del punk e stilista della tribù dell’arte | Jane Mulvagh

Addio a Vivienne Westwood, madrina del punk e stilista della tribù dell’arte | Jane Mulvagh