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È troppo comoda l’autocensura

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Redazione GDA

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Come si devono rapportare curatori e artisti con la politica? È giusto boicottare mostre organizzate in Paesi che non rispettano i diritti civili? Il caso si è posto l’anno scorso a San Pietroburgo, in occasione della decima edizione di Manifesta. In Russia era stata da poco approvata una legge omofoba. Il curatore, il veterano Kasper König, ha però deciso che la mostra si sarebbe dovuta tenere comunque. In questo articolo spiega le sue ragioni.
Berlino. Il ventesimo anniversario di Manifesta, la Biennale europea itinerante fondata dopo la caduta del muro di Berlino, coincideva con il 250mo del Museo dell’Ermitage di San Pietroburgo, offrendo così l’opportunità di allestire la rassegna nella sede più a est della sua storia. A differenza delle edizioni precedenti, l’obiettivo principale non era quello di presentare esclusivamente giovane arte contemporanea, ma di proporre arte contemporanea della massima qualità a un pubblico meno avvezzo, senza la pretesa di fare i missionari in una città che è da sempre considerata la finestra della Russia sull’Occidente. Un anno dopo l’apertura, sorgono delle complicazioni nelle trattative tra la Manifesta Foundation di Amsterdam e gli ospiti. La situazione politica è in rapida evoluzione e diventa chiaro che non si sarebbe raggiunto un accordo, cosa invece normale in una società civile. Tuttavia, sostenuti da una nutrita squadra di collaboratori russi, riusciamo ad aprire la rassegna, che nell’estate del 2014 attira 1,5 milioni di visitatori.

Fuoco incrociato
Progettare l’evento è stato una sfida e insieme un atto di ricerca di equilibrio. Eravamo presi tra due fuochi: siamo stati messi sotto esame dalla stampa russa neonazionalista da una parte e dai critici occidentali dall’altra. Molti partecipanti hanno iniziato a chiedersi se fosse legittimo intervenire a una rassegna in un regime autoritario. Poco dopo la firma del mio contratto, ad esempio, in Russia è stata approvata un’inaudita legge omofoba. Non sembrava tuttavia necessaria una reazione immediata, perché fin dalle prime fasi del progetto ero consapevole che non stavo operando in una società civile. Per me era cruciale evitare qualsiasi forma di autocensura, e per la maggior parte degli artisti che abbiamo invitato a partecipare, boicottare Manifesta sotto minaccia di una nuova Guerra Fredda sarebbe stato troppo facile; così come creare nuove opere fondate solo sull’ironia o la provocazione. Organizzare la mostra è stato un altalenarsi fra gioia, rifiuto, indifferenza e incomprensione totale. È stato evidente che l’Ermitage, pur difendendo il territorio dell’arte, non è preparato quando si tratta di un avere un approccio autocritico agli artisti e cerca di evitare il più possibile il conflitto con le istituzioni. Per riuscire a lavorare in un ambiente del genere si devono mettere da parte le aspettative che una manifestazione di questo tipo porta inevitabilmente con sé. Una mostra come Manifesta, pur senza avere l’intento deliberato di provocare il pubblico, incita al dibattito critico su diverse concezioni di arte e società. Prendiamo, ad esempio, «Lada Kopeika», un’installazione site specific di Francis Alÿs, che in questo tipo di contesto può essere potenzialmente controversa, o «Souvenir» di Kristina Norman. Per me è sempre stato importante mettere l’opera al centro, insistere sull’autonomia dell’arte e se necessario difenderla. Questo implica una fiducia nell’arte contemporanea e nel suo potere di trasformazione, ma ne blocca la funzione politica, una posizione che si oppone alla funzione ideologica dell’arte, e che non sarà alla moda ma è necessaria se si intende rendere giustizia agli artisti e rispettare il loro lavoro.

Vulnerabilità e assurdità

Alcune delle opere in mostra trasmettevano più un senso di vulnerabilità e di assurdo che di aggressione diretta, provocazione o resistenza. Già il fatto che la rassegna si sia svolta comunque accanto alla leggendaria collezione del Palazzo d’Inverno e agli spazi pubblici della città, è stato di per sé un’affermazione, una richiesta di riflessione critica, invece di una proposta di isolamento o di confronto controproducente. Come abbiamo scritto io ed Emily Joyce Evans nella prefazione al catalogo, «resta un fatto che Manifesta 10 non è una mostra politica, anche se non esclude la politica». Mi ha deluso come certi critici occidentali, che si sono fermati appena qualche giorno, ci abbiano accusato di esporre solo opere note; la mostra è stata addirittura definita «opportunista». La percezione di alcuni critici internazionali si è limitata alla sezione centrale all’Ermitage e al Palazzo dello Stato Maggiore, mentre l’importante programma pubblico organizzato da Joanna Warsza nelle stazioni ferroviarie, nei parchi, nei cinema e nelle case private, nonostante l’ampio seguito tra il pubblico locale ha riscosso pochissima attenzione. A far capire con ironia l’assurdità della situazione era un film dell’artista moldavo Pavel Braila: «Hottest Summer», proposto nel Palazzo d’Inverno, offre uno scorcio imperdibile sul dietro le quinte della rassegna, e un omaggio alle persone che vi hanno lavorato, davvero meravigliose. Voglio sottolineare che non ho la ricetta giusta per fare una mostra nel modo giusto in tempi di crisi. Dipende tutto dalla sede e dalla situazione specifica ed è il frutto di discussioni e riflessioni. Talvolta però mantenere un dialogo nonostante il conflitto, anziché interrompere del tutto la comunicazione, mi sembra il modo giusto.

Redazione GDA, 27 aprile 2015 | © Riproduzione riservata

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