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William Kentridge, per testare le idee prova con il disegno

Loretta Vandi

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William Kentridge, curato da Rosalind Krauss, è un volume che raccoglie saggi (della stessa Krauss, di Andreas Huyssen, Robert Morris, Maria Gough, Joseph Leo Koerner e Margaret Koster Koerner), una conversazione (a cura di Carolyn Christov-Bakargiev) e interventi dello stesso Kentridge (sul valore del disegno animato, sul ruolo politico dell’artista, sui vari media).
Seppure di piccolo formato, la raccolta è tanto più da apprezzare perché, oltre a trattare il disegno animato in sé, ci offre uno spaccato dell’arte contemporanea all’interno della quale il disegno animato ha trovato un suo spazio di interazione.

Per Kentridge l’immagine disegnata sarebbe un processo molto fluido, un test per idee, mentre la fotografia sarebbe un istante bloccato. Nonostante ciò, egli ha fatto più volte ricorso alla fotografia come anche al cinema e al teatro, proponendo quelli che sono i suoi temi preferiti: il manager, l’operaio, il paesaggio del Sudafrica e quello famigliare. La riflessione più interessante proviene, tuttavia, da un’altra considerazione: l’arte di Kentridge, come molta arte contemporanea, non si può seguire nel corso della sua «evoluzione» perché non esiste più possibilità di evoluzione: essa ci porta a muoverci nel nostro presente e ogni tassello che viene aggiunto non è altro che un pezzo di questo «eterno» presente.

Kentridge ha sempre rifiutato una tecnica troppo precisa, perché troppo simile alla fotografia e perché non sufficientemente «impegnata» in un processo di scoperta progressiva. Kentridge è stato definito «artista impegnato» per origine e per stile. Tuttavia l’essere sudafricano «bianco» impegnato politicamente potrebbe destare sospetti sulla sincerità dell’artista, soprattutto provenendo da una famiglia benestante (padre e nonno avvocati). Ma Kentridge garantisce che il suo intervento è sincero per tradizione famigliare (padre e nonno contro l’apartheid) e per scelta personale. Possiamo considerare Kentridge un attivista? I soggetti trattati indicano certamente differenze sociali, sfruttamento, solitudine e degrado, espressi con tecniche innovative, a volte impiegando anche una non-tecnica come la cancellatura (carboncino cancellato con gomma, con la mano o anche con un soffio); infine, come molti artisti dall’inizio del Novecento in avanti, ha fatto coesistere vari media. Ma è tutto questo sufficiente a scalfire il concetto di «apartheid» che Kentridge ha chiamato, non a caso «The Rock»?

La risposta potrebbe essere questa: Kentridge non rappresenta gli ambienti di sofferenza e di squallore del Sudafrica ma li fa «generare» dall’artista stesso che non si limita a usare il medium ma decide di farne parte, sacrificando la sua autonomia per dare un’anima alla tecnica. Se questo è comprensibile quando egli si raffigura come manager, come operaio, come donna di colore, diventa molto meno ovvio quando si autorappresenta come ambiente degradato, come paesaggio che il tempo ha già scalfito per sempre. Inoltre, l’artista rifiuta la simbolizzazione, forse perché «blocca» la fluidità del processo formativo delle immagini.

Kentridge, riferendosi alla «fortuna» o, meglio, al «caso», trae ispirazione da forme imprecise che lo conducono all’atto stesso di disegnare, un atto generativo come scrivere o parlare. L’impiego del carboncino e del pastello per ottenere effetti di sfocatura rimanda all’usato, al consunto, allo sfregiato, al demolito prima ancora che la forma abbia raggiunto la sua completezza anche se alla base di tutto vi è sempre e comunque la ricerca del significato. Kentridge ha scelto come suoi predecessori Rembrandt, Goya, Beckman, Lucian Freud, Bacon, ma aggiungerei anche Kathe Kollwitz e Anselm Kiefer, tutti artisti che, con la loro critica sociale e la deformazione dei contorni, hanno conferito un «peso» all’immagine.

Con il «peso dell’immagine» (o «immagine impegnata» nel soggetto e nella tecnica) Kentridge attuerebbe una critica alla società in cui è cresciuto, un peso che creerebbe «resistenza» allo sguardo, generalmente distratto, dell’osservatore contemporaneo. Secondo Kentridge, le immagini, al di là della loro natura illusoria, devono «agire» sull’osservatore, inducendolo a riflettere sui problemi sociali ed esistenziali, ma anche sul ruolo dell’artista contemporaneo che oscilla tra l’essere sognatore, sperimentatore, bricoleur e scettico commentatore.


William Kentridge, a cura di Rosalind E. Krauss,  208 pp., 53 illustrazioni b/n, October Files 21, The Mit Press, Cambridge, MA e Londra 2017,  $ 22.95

La copertina del volume

Loretta Vandi, 06 settembre 2017 | © Riproduzione riservata

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