Victoria Lomasko è The Last Soviet Artist
Al Museo di Santa Giulia la prima personale in Italia dell’artista dissidente russa. «Da liberatori siamo diventati assassini. D’ora in poi anche solo il riferimento alla parola “sovietico” sarà impossibile»

Inaugura venerdì 11 novembre dalle ore 18.30, con un’apertura straordinaria fino alle ore 22, negli spazi espositivi del Museo di Santa Giulia a Brescia, la prima personale in Italia dell’artista dissidente russa Victoria Lomasko (Serpukhov, Russia, 1978). Organizzata dal Comune di Brescia, la Fondazione Brescia Musei e il Festival della Pace di Brescia, e curata da Elettra Stamboulis, la mostra «Victoria Lomasko. The Last Soviet Artist» (fino all’8 gennaio 2023) si configura come il terzo atto della ricerca intrapresa da Fondazione Brescia Musei nel 2019 sul grande tema dei diritti umani e del rapporto tra arte contemporanea e arte politica.
«Con Zehra Doğan, poi Badiucao e adesso Victoria Lomasko, spiega Stefano Karadjov, direttore della Fondazione Brescia Musei, ci eravamo prefissi di portare all’attenzione del pubblico italiano artisti politici indipendenti il cui accento era stato posto finora sul tema della dissidenza politica piuttosto che sul loro linguaggio artistico e la loro poetica. Artisti che non erano mai stati seguiti da un curatore e mai pubblicati in Italia. Uno sforzo considerevole teso a gettare luce su tre regimi autoritari diversi, rispettivamente Turchia, Cina e Russia, e forse agevolato dal nostro contesto museale non propriamente centrale. Paradossalmente questo consente un più ampio margine di sperimentazione, mentre il timore di essere giudicati è un po’ allentato dal posizionamento periferico».
Considerata dalla critica e dalla stampa anglosassone la più importante artista sociale grafica russa, con il suo tratto sintetico e preciso, mai disgiunto dalla parola, Victoria Lomasko sfida l’estetica imperante ponendosi nel pieno della tradizione realista. Capace, attraverso il gesto artistico, di mescolare i confini tra fatto oggettivo e racconto soggettivo, ha ricostruito la storia politica e sociale della Russia dal 2011 ad oggi, documentando le manifestazioni anti Putin e accendendo i riflettori sulla vita quotidiana degli ultimi e dei dimenticati, gli «unpeople» per dirla con Orwell, che sono i soggetti d’elezione del suo lavoro. L’abbiamo intervistata.
«The Last Soviet Artist» è il titolo del suo ultimo libro, finito di scrivere tre settimane prima dell’inizio della guerra in Ucraina, ma è anche il titolo di questo articolato progetto espositivo. Perché si definisce l’ultima artista sovietica?
Tutti i personaggi e i temi che ho trattato nel corso degli ultimi dieci anni sono legati in modo molto stretto al mio destino, quello di una persona nata e cresciuta in Unione Sovietica. Gli eventi che adesso stanno accadendo mi riportano alla mia infanzia, alla dittatura e allo stato totalitario. Al punto che la scorsa notte ho avuto un incubo: ho sognato di essere tornata in Russia per trovare i miei genitori e di non poter più uscire, di rimanere bloccata lì. In una delle opere che ho realizzato per questa mostra ho ripreso una caricatura politica, intitolata «Suicidio della realtà post sovietica», che avevo realizzato appena arrivata a Bruxelles, i giorni immediatamente successivi l’inizio della guerra in Ucraina. Il disegno raffigura un celebre monumento di Berlino, la statua dell’eroe sovietico che ha liberato la Russia dal nazismo, mentre tiene in braccio una bambina. Adesso quella bambina cade insanguinata dalle sue braccia. I tempi sono cambiati così tanto che da liberatori siamo diventati assassini. Quello che stiamo vivendo renderà impossibile, da qui in avanti, anche solo il riferimento alla parola «sovietico».
Questa è la prima volta che espone in Italia il suo lavoro. Che tipo di architettura ha voluto dare a questo progetto creato appositamente per il Museo di Santa Giulia?
Per me era importante mostrare i lavori realizzati alla vigilia della guerra, tutto il ciclo del 2021 perché in esso è contenuto un fortissimo presentimento. Vi ritroviamo per esempio un bosco in cui i rami degli alberi diventano armi e monumenti sovietici che prendono vita e uccidono la nuova generazione russa. Volevo esibire anche un’opera monumentale, realizzata a Bruxelles lo scorso aprile, dal titolo «The changing of seasons»: un lavoro contro la guerra in Ucraina e la dittatura in Russia. Ma ovviamente, per via della drammaticità del momento, era necessario che io creassi anche delle opere nuove. Così è nato «5 Steps», un murale composto di cinque pannelli ognuno raffigurante un simbolico passo: isolamento, fuga, esilio, vergogna, umanità. In quello che fa riferimento alla vergogna, ho disegnato anche una mia amica incinta con la quale sono scappata da Mosca. Una situazione estrema, non solo perché in diversi momenti avrebbe potuto perdere il bambino ma anche perché approdavamo in un altro Paese, il Belgio, come profughe ma senza avere la dignità di profughe. In quel momento non capisci nemmeno quello che sei.
La sua pratica, che si potrebbe definire di reportage grafico, combina immagini e parole con un’estetica underground. Le prime riprendono la tradizione dei disegni dei diari dei soldati appena arruolati o gli schizzi che documentavano la vita nelle prigioni sovietiche. Le seconde hanno a che fare con la sua storia di scrittrice. Ricordo che i suoi libri sono stati da tempo tradotti in inglese, tedesco, francese e spagnolo e che «Other Russias» ha ricevuta una menzione speciale dal Pushkin House Book Prize nel 2018, sebbene non sia mai stato pubblicato in Russia.
Lavoro in due direzioni: una è quella del reportage grafico, l’altra quella dei murales. Tutti i dettagli che raffiguro nei murales sono prelevati da schizzi eseguiti in situazioni reali. Ripropongo scene di vita quotidiana con uno stile che in qualche modo si rifà a quello dell’arte vietata, intendo dire quella non ufficiale, che storicamente ha potuto avvalersi solo di strumenti e risorse limitate, come un album e una matita per esempio. Combino sempre insieme immagini e parole anche se a volte si tratta di testi brevi, poco più che didascalie. Ma in qualche modo per me la parola è anche più importante dell’immagine. Credo che questo sia dovuto al fatto che sono di per sé una scrittrice che disegna e tutte le volte che accade qualcosa devo scrivere, fosse anche solo un fumetto, devo raccontare quello che sta succedendo. Intimamente sono convinta che cancellare le parole sia più difficile che eliminare le immagini e quando ho difficoltà a lavorare penso a quanto hanno sofferto gli scrittori e i poeti russi, in tanti fucilati o repressi. Rispetto a loro, io vivo una condizione più semplice.
Dice che per lei è fondamentale disegnare nel luogo dell’evento, quello dell’accadimento, per trasmettere nel disegno il ritmo dell’azione. Motivo per cui non potrebbe mai usare un altro medium, la fotografia per esempio. Parla di sé come di un trasmettitore di energia. Può spiegare questo aspetto?
Ci sono degli eventi rispetto ai quali non hai dubbi: ti stai trovando dentro la storia. Mi è capitato quando ho disegnato e documentato il processo alle Pussy Riot. Mi ricordo come fosse adesso la massa di giornalisti che mi schiacciava contro le sbarre che delimitavano la gabbia, in Russia si tratta di vere e proprie gabbie, dentro la quale erano rinchiuse le imputate. E proprio lì dentro, a un passo da me, osservavo l’attivista Maria Alyokhina recitare alcuni versi del poeta russo Mandel’štam. Tutta la scena si è poi composta in un’immagine. La storia era lì, in quell’accadimento, in quell’energia. Non avevo dubbi. La cosa importante che bisogna fare in quelle occasioni è disegnare il più velocemente possibile.
Anche suo padre era una artista, sebbene per seguire la sua passione fosse costretto a disegnare la propaganda sovietica. In che modo il lavoro di suo padre ha influenzato il suo? Forse la vostra vicenda può essere assunta a metafora dello scontro generazionale che si sta consumando in Russia?
Per la maggior parte della sua vita mio padre è stato un uomo profondamente infelice e un artista non realizzato. Voleva molto poter disegnare, ma l’unico lavoro legato al disegno che poteva fare era creare la propaganda sovietica. Non penso che mi abbia influenzato in qualche modo come artista. L’ha fatto lui come persona ovviamente, in modo immenso. Un uomo che non è mai stato all’estero e molto raramente si è allontanato dalla piccola città di Serpukhov nella quale abitavamo. Ora è un anziano pensionato che passa gran parte del suo tempo guardando fuori dalla finestra nell’attesa che accada qualcosa. Ho questa immagine di lui, di un uomo che trascorre la vita affacciato a una finestra senza mai decidersi a uscire in questo grande mondo. Forse è proprio vedendo mio padre che ho deciso di andarmene dalla mia piccola città salendo su un’astronave. Le persone che hanno vissuto la maggior parte della loro vita in Unione Sovietica, hanno vissuto cose che è molto difficile capire e cambiare, anche per noi della nuova generazione. Mio padre fortunatamente è contrario alla guerra in Ucraina, ma purtroppo tanti dei suoi coetanei la appoggiano e spesso senza un motivo specifico, ma solo perché si ricordano di quando erano giovani, di quando eravamo tutti un unico popolo, tutti uniti e circondati da terribili nemici che volevano distruggerci: gli americani e gli europei.
Lei parla di arte come dono, come di uno strumento di pace. Quale ruolo e responsabilità ritiene di avere come artista nella contingenza di questo momento?
Forse in questo momento di guerra la cosa più importante è dimostrare che l’umanità è unica e indivisibile e prova le stesse emozioni. Di quelle è vestita. Diamo per scontato che la vita si svolga in maniera pacifica, ma ci siamo accorti di quanto sia facile perdere la pace. Io vorrei testimoniare i valori e l’esistenza delle persone comuni, mostrare che i giochi geopolitici sono un nulla e che il vero valore è la vita della gente semplice. E spero che, quando finirà questo orrore e avremo superato questa tragedia, questo fatto sarà evidente a tutti.