Enea Righi: «Vendo ma per passione»

Da Phillips vanno all’asta il 16 aprile 27 opere contemporanee della sua collezione

Enea Righi e Carolina Lanfranchi nella casa del collezionista. www.phillips.com
Michela Moro |  | Londra

Enea Righi (1956) vende per passione: il 16 aprile un nucleo di opere della sua collezione, raccolte sotto il titolo «Out of the Blue», è battuto all’asta da Phillips a Londra. Sono 27 opere, tra le mille e più che compongono la collezione, un percorso dagli anni Sessanta ad oggi, risultato di una ricerca iniziata più di trent’anni fa attraverso video, fotografia, pittura, scultura, architettura e performance.

Sotto il martelletto passano, tra le altre, opere di Alighiero Boetti («Senza titolo» del 1977-78, stima 400-600mila sterline), dipinti di Glenn Ligon («Mirror #2» del 2006, 600-800mila) e Anselm Kiefer («Anthurie» del 1987-91, 300-500mila), un’installazione di Jenny Holzer («Arno» del ’98, 50-70mila), una scultura di Carl Andre («45-Part Steel Cut» del 1972, 120-180mila) e un lavoro fotografico di Louise Lawler («Collage/Cartoon» del ’90, 60-80mila).

Molte opere della collezione Righi sono, forse inconsapevolmente, note a un pubblico vasto perché il collezionista bolognese, che crede nella funzione pubblica dell’arte, ne ha prestate un cospicuo numero a varie istituzioni, tra cui più di 150 con un prestito di dieci anni, già rinnovato, a Museion di Bolzano e al Museo Madre di Napoli (queste ultime ritirate dopo l’uscita del direttore Andrea Viliani).

Come ha scelto i lavori da mettere all’asta?

Sono quelli che secondo me hanno fatto il proprio tempo nella mia collezione, sono un mondo che si è chiuso, a parte il Boetti che è come se mi tagliassero il braccio destro, ma sono stato convinto da Carolina Lanfranchi (responsabile 20th Century and Contemporary Art da Phillips, Ndr).

C’è qualche opera acquistata in momenti particolari?

Tutte, come il meraviglioso «Collage Cartoon» di 4 metri del ’90 di Malcolm Morley (150-200mila), artista non veramente riconosciuto dal mercato, quindi i lavori di Martha Rosler, Thomas Hirschhorn, Walid Raad, Gordon Matta-Clark e Kader Attia, artisti degli anni ’80 che Carolina mi ha convinto a mettere in asta, e poi Daniel Buren («Peinture acrylique blanche sur tissu rayé blanc et orange» del ’71, 200-300mila), Candida Höfer, Etel Adnan («California #17» e «California #19» del 2013, 30-40mila ciascuno).

Il ricavato della vendita servirà a incrementare la collezione, con un taglio ancora più contemporaneo?

Sì, a me piace comprare il contemporaneo. Sono affascinato dall’idea dell’artista contemporaneo che riesce a inquadrare il mondo che verrà, lanciando dei moniti e dei propositi che devono essere raccolti. Gallerie come Franco Noero, Zero, GB Agency in Francia lavorano con artisti giovani che vanno sostenuti, come quando negli anni ’80 e ’90 nessuno sapeva chi fossero Zoe Leonard e Roni Horn. Caratteristica della mia collezione è creare nuclei importanti degli artisti che adoro, com’è successo con Boetti che ne è un po’ il filo conduttore. Adesso voglio indirizzare la ricerca verso gli emergenti, artisti in divenire di cui non mi piace rivelare i nomi.

Ha comprato durante il lockdown?

No, tenevo i rapporti con i galleristi, ma non riesco a vedere le mostre online; il rapporto è con l’opera, l’artista e il gallerista. Questo momento però non mi dispiace; è durissima, ma serve per fare pulizia a livello artistico, anche se mi spiace per gli artisti che stanno peggio di tutti, per le piccole e medie gallerie. Adesso ho ricominciato a girare per Milano, ho visto delle cose molte interessanti e mi è ripartito il trip del collezionista.

Ha citato gallerie emergenti un tempo, non nuove gallerie.

Faccio fatica a interpretare molte gallerie giovani: sono molto formali o eccessivamente giovanilistiche, ma già all’inizio non hanno futuro. Un grande gallerista lo è quando ha un rapporto duro con l’artista, da produttore. Nelle nuove scelte vedo contenuti già visti, pochi pensieri innovativi, anche se non sempre: l’installazione video di Tommy Malekoff «The Geography of Nowhere» è entusiasmante, ma sempre da Zero. Di Marino di Napoli fa un lavoro molto serio, di ricerca appassionata, e lo ammiro nonostante non sia suo cliente. C’è un eccesso di offerta senza domanda, i collezionisti sono sballottati tra mediocri offerte eccessive.

Nel 2020 si è dimesso da ad della sua azienda, la Servizi Italia S.p.A, a soli 64 anni. C’entra l’arte?

Non è stata la molla ma l’obiettivo finale. Alla mia età ho ancora un bonus di anni per pensare di più all’arte contemporanea; ho lasciato la mia azienda con la possibilità di andare avanti senza di me e sono felice con me stesso e la mia grande passione.

Ha mai comprato all’asta?

Ho sempre criticato le aste pensando che danneggiassero il mercato; in realtà chiudono il cerchio del sistema economico dell’arte: una galleria avrebbe più difficoltà a vendere un’opera di vent’anni prima, anche se le aste sono diventate quasi delle gallerie.

Le private sales delle aste hanno sostituito le grandi gallerie?

Il problema esiste: come risposta a questa situazione, per non perdere la fetta del mercato secondario, alcuni galleristi, vedi Perrotin, hanno aperto spazi dedicati. Ho svolto la mia attività in un’azienda e credo nella forza e nella lucidità del mercato; alla fine vince chi fa una proposta economica seria e non mi meraviglio se le aste svolgono questo tipo di funzione. Quindi, a mio avviso, la galleria dovrebbe tornare a fare quello che ha sempre fatto: scoprire, far nascere e crescere talenti, non essere solo attività commerciale scontrandosi con chi fa già attività commerciale. Il mercato di nicchia non potrà mai essere coperto dalle grandi potenze.

Seguirà l’asta?

No, per scaramanzia non la voglio vedere.

© Riproduzione riservata
Altri articoli di Michela Moro